- Casa
- /
- Blog
- /
- Cinema Cinese
- /
- Recensioni film cinesi
- /
- Intervista a Hao Wu,...
Hao Wu è un regista indipendente con sede a New York, autore dell’acclamato documentario People’s Republic of Desire e All in my Family.
Durante lo scoppio della pandemia, il regista ha iniziato a ideare questo progetto, 76 Days, con l’aiuto di due collaboratori che hanno avuto pieno accesso agli ospedali di Wuhan per realizzare un documentario che mostrasse gli aspetti più umani di questo dramma. Il film, dopo una genesi travagliata dovuta alla pandemia e alla situazione internazionale, ha riscosso un ottimo successo nei festival cinematografici internazionali debuttando in anteprima al Toronto film Festival a settembre.
Articoli correlati: Intervista a Hao Wu, regista di People’s Republic of Desire
Dov’eri quando è scoppiata l’epidemia a Wuhan e come hai deciso di realizzare un documentario sul COVID-19?
Ero a Shanghai, in visita ai miei genitori e alla famiglia di mia sorella per il Capodanno cinese. Il giorno in cui sono arrivato a Shanghai, il governo ha messo Wuhan in lockdown. Così io stesso ho passato a Shanghai i primi 10 giorni di isolamento. Di solito, come regista, non mi avvicino a questo tipo di argomenti, perché i miei film del passato sono molto più incentrati sul carattere dei personaggi. Non mi piace affrontare temi di cronaca perché mi chiedo, cosa posso portare di più a una storia se è stata ben riportata dai media? Quando ero a Shanghai, dal momento che Wuhan era stata messa in isolamento, anche il resto della Cina entrò in lockdown. Vedere l’intera città completamente vuota è stato come assistere ad un film apocalittico, è stata un’esperienza inquietante. A causa di queste circostanze, non potevamo fare altro che stare in casa informandoci sui social media, cercando di capire cosa stesse accadendo e constatando quale fosse la situazione terribile dei primi giorni, ero arrabbiato, proprio come molti altri cinesi che conoscevo. Così, quando sono tornato negli Stati Uniti all’inizio di febbraio, un network americano mi ha chiesto se volevo fare un film su questa epidemia, ho subito risposto di sì. In seguito, il network si è ritirato dal progetto, e ho continuato indipendentemente.
Come hai selezionato i tuoi collaboratori a Wuhan? È stato difficile rimanere in contatto?
Non appena ho iniziato a fare ricerche su questo film, ho cercato di mettermi in contatto con alcuni videomaker e sono stato introdotto ad alcuni reporter che avevano già iniziato a fare delle riprese a Wuhan. Ho iniziato a parlare con loro online e mi hanno passato alcuni filmati di quello che stavano girando. Ho parlato con più di una dozzina di loro prima di vedere i filmati dei miei eventuali collaboratori. Appena ho visto i loro video, ho pensato: “Wow, questo materiale è così unico e emozionante. E così reale.” Ho iniziato a parlare con loro di una possibile collaborazione. Durante la produzione, praticamente ogni giorno dopo le riprese, caricavano i filmati utilizzando un servizio cloud in Cina. Dato che avevo i loro login, scaricavo le riprese a New York non appena erano disponibili. Dopo aver esaminato i filmati, discutevamo online sul da farsi.

Come hanno avuto accesso agli ospedali di Wuhan?
Durante l’isolamento, l’accesso agli ospedali era limitato agli operatori sanitari, ai pazienti e ai giornalisti. Poiché entrambi i miei due collaboratori sono giornalisti in Cina, Weixi Chen lavorava come video reporter per Esquire Cina, mentre il regista anonimo è un fotoreporter che lavora per un giornale locale, soprattutto nella prima fase, l’accesso all’ospedale era autorizzato dalla singola struttura. Era quindi impossibile accedere ad alcuni ospedali, come quello del dottor Li Wenliang, uno dei primi informatori, che è stato tra i primi a denunciare la pandemia e che in seguito è morto per aver contratto il COVID sul lavoro. In questo ospedale nessuno poteva entrare. Ma in altre strutture, se il responsabile dell’ospedale accettava di farti entrare, potevi potenzialmente farlo se eri un giornalista. Una volta ottenuto l’accesso alla struttura, sono rimasti sempre dentro, potendo filmare tutto quello che volevano.

Puoi dirci perché uno dei registi ha deciso di rimanere anonimo?
Mentre giravamo questo film, sin dalla fase di montaggio, ci è apparso chiaro che volevamo fare un documentario umano, per raccontare le storie delle persone in prima linea piuttosto che renderlo politico. Ma dal momento che il COVID-19 è diventato un delicato argomento di attualità geopolitica, a causa del modo in cui abbiamo montato il nostro film, il modo in cui raccontiamo le nostre storie, non eravamo esattamente sicuri di come il governo cinese avrebbe risposto. In secondo luogo, sull’ internet cinese, ci sono sempre più spesso questi troll nazionalisti, che attaccano chiunque percepiscano critico nei confronti della Cina. Abbiamo incluso nei crediti Weixi perché è un aspirante regista, vuole fare altri film e così ha voluto ottenere il giusto riconoscimento per il suo lavoro. Vive inoltre a Pechino, ha meno paura. Il regista anonimo, dal momento che è un reporter locale a Wuhan che ha lavorato solo per aziende statali in precedenza, aveva paura di perdere il lavoro, soprattutto a causa delle minacce dei troll di internet.

Come hai scelto i personaggi principali?
Durante la produzione, l’unica persona che sapevamo che sarebbe diventata un personaggio principale era un vecchietto che soffriva di demenza senile. Non sapevo quale sarebbe stato il protagonista, o il personaggio di supporto, finché non ho iniziato a montare il film, perché quando stavano girando in ospedale tutto era molto caotico. C’erano così tante persone che andavano e venivano durante la produzione, in realtà non avevamo idea di chi potesse essere il protagonista. Ad un certo punto della post-produzione, per un periodo di tempo, abbiamo pensato che non ci sarebbero stati personaggi principali, che avremmo realizzato soltanto un ritratto delle persone in prima linea. Ma poi in seguito, gradualmente, durante la post-produzione, durante il montaggio, le storie di alcune persone hanno cominciato a riemergere, più spesso di altre, come quella della caposala che voleva restituire gli effetti personali dei defunti alle famiglie, o quella di un infermiere molto attento alle cure dei pazienti. Questi personaggi sono emersi gradualmente durante il montaggio.

Perché i due videomaker di Wuhan hanno abbandonato il progetto? Come hai reagito? Come sei riuscito a superare la situazione?
A marzo, l’amministrazione Trump, in difficoltà nel contenimento dell’epidemia, per cercare di deflettere le critiche dai propri fallimenti, ha iniziato a chiamare il virus Cinese, il virus Wuhan, incolpando la Cina. La Cina ha iniziato ad arroccarsi adottando un atteggiamento difensivo e aggressivo, iniziando a controllare in maniera sempre più stringente la narrazione. E così i miei due co-registi di allora divennero comprensibilmente nervosi. Erano anche nervosi perché non avevamo mai collaborato in precedenza, in realtà non ci eravamo mai incontrati prima. Ho parlato con loro solo via internet. Inoltre sono un regista indipendente con sede a New York. Pensavano di non poter lavorare più con me, c’era troppo rischio. Per me, è stato davvero devastante perché ho passato così tanto tempo a lavorare con loro, e ho pensato molto a questo progetto. Mio nonno poi è morto di cancro all’inizio di marzo, non ho potuto tornare per salutarlo, a causa della limitazione dei viaggi tra gli Stati Uniti e la Cina. Mi sono sentito come se fossi stato colpito personalmente da questo COVID-19. Volevo davvero, sai, fare un film su questo. Così, alla fine, quello che ho fatto è stato iniziare a riguardare il materiale, cercando di dare una forma al film, e realizzando rapidamente un montaggio approssimativo per mostrare loro che le mie intenzioni creative, erano in linea con le loro. Il mio stile di montaggio segue un po’ il loro stile di ripresa. Non appena hanno visto la mia guida approssimativa, hanno capito che le nostre visioni creative erano abbastanza in sintonia.
Il documentario è dedicato al personale medico di tutto il mondo. Cosa pensi dell’ondata di teorie cospirazioniste che hanno travolto i social media occidentali? Qual è la fonte di questa incredulità in ciò che accade in prima linea?
Ho passato molto tempo a leggere delle pandemie del passato e in qualsiasi pandemia, in qualsiasi momento, quando accadono catastrofi come questa, è nella natura umana attribuire la colpa ad altre persone. Abbiamo passato così tanto tempo a leggere le notizie sulle statistiche e sui numeri che, per certi versi, mi sembra che molte persone si stiano desensibilizzando. E, inoltre, a causa della divisione politica in molti paesi, molte persone hanno concentrato le loro energie e la loro attenzione sulla politica e sui numeri intorno alla pandemia, invece di prestare più attenzione alle tragedie e al costo umano. Non sono davvero in grado di commentare il motivo per cui credono in questi complotti o del perché, penso però che faccia parte della natura umana. Quando succede una cosa del genere, ci saranno sempre teorie cospirazioniste.

Qual è il tuo prossimo progetto?
Sto sviluppando alcuni progetti, sia documentari che sceneggiature, in questo momento. È difficile viaggiare negli Stati Uniti per fare ricerche sui documentari a causa del COVID-19. Una delle cose su cui sto lavorando riguarda alcuni asiatici americani che hanno fatto causa all’Università di Harvard per presunta discriminazione e per il processo di ammissione, e questa causa potrebbe arrivare alla Corte Suprema nel corso di quest’anno. Sono nella fase iniziale di produzione. Ma come ho detto prima, è davvero difficile fare riprese in questa situazione.

Il presidente uscente degli Stati Uniti Donald Trump ha ripetutamente chiamato il coronavirus il virus cinese, il virus di Wuhan, ecc. Nel corso dell’anno abbiamo assistito a un’escalation di episodi razzisti, spesso anche violenti, contro cittadini che sembravano essere asiatici. In che modo questa atmosfera ha influenzato la realizzazione del documentario?
Avendo visto i miei film passati sai che il mio obiettivo è quello di raccontare la Cina nella sua complessità, non quello di seguire alcune narrazioni consolidate. Concentrandomi sulle storie umane, ritraendo i cinesi come esseri umani a pieno titolo, che prendono decisioni difficili in prima linea e sono pronti ad aiutarsi a vicenda; credo che questo sia il mio piccolo modo di combattere questa narrazione prevalente. Ogni volta che pensiamo al COVID e alla Cina in questo momento, critichiamo sempre i suoi primi errori di gestione, o ci concentriamo sulla censura delle informazioni. Non sto dicendo che queste cose non siano vere, ma non è questo il quadro completo. Quindi immagino che la storia che racconto in 76 giorni, è quella che riporta l’umanità alle persone dimostrando quanto esse siano resistenti, e quanto siano coraggiose quando cercano di sopravvivere a lungo termine.