Mulan: cosa ci insegna il disastro della Disney sulla Cina di Xi Jinping

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Il fallimento del rifacimento del celebre cartone degli anni ‘90 illustra una serie di problematiche che sono state nascoste sotto il tappeto per troppo tempo.

Nel 2015 la Disney ebbe la grandiosa idea di realizzare un film rivolto al mercato cinese ed allo stesso tempo ideato per compiacere il difficile regime . Il rifacimento di Mulan sembrava all’epoca un’ottima idea per fare cassa ed allo stesso tempo per rafforzarsi nel mercato locale, da sempre considerato una sorta di Eldorado per molti marchi occidentali. Ma semplicemente per mettere piede (o per rimanere) in questo immenso mercato, bisogna soddisfare alcuni requisiti minimi e soprattutto non bisogna fare innervosire il governo con inutili inezie come l’esistenza del Tibet o i diritti umani.

La rimozione del Tibet dalla coscienza hollywoodiana collettiva

Negli anni ‘90 la Disney realizzò Kundun, un film diretto da Martin Scorsese sulla vita del Dalai Lama. I leader cinesi si rivoltarono contro il film, e lo stesso CEO di Disney, Michael Eisner dovette viaggiare sino in Cina per chiedere perdono per avere realizzato un film che parlava del Tibet, e per negoziare un parco tematico a Shanghai. Una sorte analoga la ricevette il film Sette Anni in Tibet.

Ancora nel 2016, la Marvel (sempre di proprietà della Disney) ha rimosso dal film Doctor Strange il personaggio di un saggio tibetano, nel film sostituito da Tilda Swinton, sempre per non infrangere i fragili sentimenti del governo cinese, che evidentemente si sente minacciato da un super eroe di carta.

Il risultato di questi intoppi è un eccesso di zelo nei confronti del regime cinese e l’autocensura preventiva delle grandi produzioni hollywoodiane, che pur di arrivare sul mercato cinese, non si fanno problema alcuno a mettere la museruola ai loro autori.

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#BoycottMulan is a MUST! After support HK police brutality, @Disney is pro genocide on #Uygur ! The final credits of #mulan thank Chinese government security agency in Xinjiang , where about 1m people are sent to concentration camps for torturing and forced slave labor. / support me on patreon : patreon.com/badiucao & badiucao.com/artshop 开通了 Patreon 接受捐赠,希望大家的支持和分享。 请戳:patreon.com/badiucao 独立性是艺术的根本,但是面包和牛奶也不可或缺,疫情之下许多展览和活动的机会都被取消。艺术家的生存成为难题。 感谢大家一直以来的支持,你们的慷慨解囊会让我的创作独立,持之以恒。🙏 #五大诉求缺一不可 Chinese dissident cartoonist Badiucao has unveiled a flag design that he hopes will “become a new symbol of Hong Kong’s freedom and resistance.” The rainbow-coloured design was inspired by the “Lennon Wall” message boards that have sprung up in communities across Hong Kong since June. #freedom #hongkong #antielabhk #standwithhongkong #art #artistsoninstagram #arts #streetart #hongkong #hongkongprotest #humanrights #freespeech #beijing #china #politicalcartoons #illustrationartists #australian

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La genesi di un fallimento

Sin dalle prime fasi della realizzazione di questo film, la stella polare della Disney in tutta l’operazione Mulan è apparsa essere quella di assecondare e prevenire ogni desiderio del governo di Beijing.

All’inizio sono state le sventurate dichiarazioni della protagonista del film Liu Yifei, che aveva ringraziato la polizia di Hong Kong per il suo ruolo nel stroncare le proteste pro democratiche ad Hong Kong, portate avanti dai giovani studenti dell’ex colonia britannica, causando pertanto l’immediato boicottaggio da parte non solo degli attivisti, ma anche dei simpatizzanti in mezzo mondo.

Come tutte le produzioni cinematografiche uscite in questo periodo, la pellicola ha dovuto affrontare la crisi innescata dal covid, che ha svuotato le sale e che sta mettendo a rischio la salute dell’intero settore. Già nel 2003, la SARS fu tra i responsabili della crisi del cinema di Hong Kong, che non riuscì più a riprendersi.

Per aggirare il problema, la Disney ha deciso di affidarsi alla sua nuova piattaforma di streaming Disney+ richiedendo tuttavia un’ulteriore sforzo economico, oltre al costo dell’abbonamento.

Quando il film alla fine è stato diffuso, si è infine palesata l’ansia della Disney di compiacere il regime cinese ringraziando le autorità della provincia “autonoma” dello Xinjiang, dove sono state girate alcune scene del film, le stesse autorità che hanno rastrellato e mandato in campi di concentramento i cittadini uiguri.

La pellicola a questo punto in occidente è stata danneggiata dalle scelte compiute dalla Disney, scelte dettate come si diceva poc’anzi per opportunismo e per soddisfare i desideri di Beijing.

Ma anche questa speranza si è infranta quando nella giornata di ieri si è diffusa la notizia che una circolare del governo cinese diffusa nei media nazionali imponeva il silenzio attorno alla pellicola, rea di avere attratto ulteriori critiche non gradite da parte occidentale.

Il film pertanto non è stato bandito in Cina, ma è stato oscurato sui media principali, minandone per sempre le possibilità di recupero dell’investimento e tradendo allo stesso tempo le aspettative del CEO della Disney che già si immaginava di tuffarsi in un mare di renminbi, come un novello Zio Paperone.

Il film inoltre non ha nemmeno ricevuto critiche positive sull’aggregatore Douban, che con una media di 4,7 su 10, ha decretato un verdetto negativo, stroncando quindi sul nascere la possibilità che la pellicola potesse salvarsi grazie al passaparola. Il film non è stato particolarmente apprezzato dal pubblico cinese per alcuni cambiamenti effettuati alla trama originaria, per la piattezza generale della produzione e per la mancanza di coerenza storica.

Mulan però esce nel 2020, dopo l’esplosione del coronavirus, originatosi in Cina, dopo la guerra commerciale con Trump, dopo le proteste pro democrazia ad Hong Kong, e dopo anche la creazione dei disgraziati campi di concentramento nello Xinjiang.

In questo periodo inoltre il governo americano ha preso di mira per motivi di sicurezza o presunti tali numerose compagnie cinesi, a partire da Huawei per arrivare a Tiktok, compagnie che sono riuscite a diffondersi in occidente, ma che ormai sono state azzoppate dall’intervento statunitense. La prima è stata bandita dalle gare per la realizzazione delle reti 5g in praticamente tutto l’occidente, e le è stato impedito di acquistare i chip americani, indispensabili per la realizzazione degli smartphone, e la seconda invece è vista come un cavallo di Troia per spiare i cittadini di mezzo mondo.

Sin dall’apertura del mercato cinese negli anni ‘90, la Cina è stata presa d’assalto da compagnie grandi e piccole occidentali che vedevano il paese asiatico come una possibilità per incrementare i fatturati, senza stare tanto a badare ad una serie di fastidiose limitazioni presenti in occidente, come le regole ambientali e il rispetto dei diritti dei lavoratori. Pertanto, con questa mentalità saccheggiatrice in testa, innumerevoli compagnie si sono spostate in Cina alla ricerca di guadagni facili, e mettendo da parte ogni remora morale, spesso delocalizzando selvaggiamente in oriente, mandando a casa operai e lavoratori connazionali in luogo di una più economica manodopera cinese, e spesso anche sfruttando incentivi governativi per la promozione del commercio estero.

La Disney non è stata la prima compagnia occidentale a cercare di soddisfare i voleri di Beijing. La NBA ha perso centinaia di milioni di dollari di fatturato dopo una controversia per alcuni commenti rivolti alla situazione ad Hong Kong. La Premier League Inglese è stata anch’essa confinata in un angolo per lo stesso motivo. I produttori di canola canadesi si sono visti congelare le esportazioni per un anno in Cina, per ritorsione all’arresto della figlia del fondatore di Huawei in Canada, tutte le operazioni della sud coreana Deloitte sono state interrotte in Cina durante la costruzione del sistema anti missilistico americano in Corea del Sud.

Se vi è una lezione da cogliere in questa sfortunata vicenda è che l’autocensura, oltre che ad essere moralmente discutibile, non paga.

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