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- Intervista a Marco Fumian:...
Marco Fumian insegna lingua e letteratura cinese moderna all’Università L’Orientale di Napoli.
I suoi interessi di ricerca si concentrano sui nessi fra cultura, società e ideologia nella Cina contemporanea. Dal 2017 dirige la rivista online Sinosfere, piattaforma sull’universo culturale cinese.
Dopo i modi in cui il governo cinese ha gestito, nelle prime settimane, la crisi causata dal coronavirus, in Cina esiste ancora una fiducia cieca nella leadership di Xi Jinping? L’ammirazione sconfinata per il presidente è stata in qualche modo messa in dubbio dal cittadino medio?
Questa è una domanda a cui vorremmo saper rispondere in tanti! Ovvero: qual è il livello di consenso reale di cui gode Xi Jinping in Cina? Domanda a cui per me è impossibile rispondere, ma penso sarebbe molto difficile anche per chi rileva i sentimenti della società cinese in tempo reale, vuoi perché vive in Cina, vuoi perché magari frequenta assiduamente i social network cinesi, cosa che io purtroppo non riesco a fare. La ragione, direi ovvia, è che il controllo del Partito sulla società e sull’informazione è diventato così stringente che è diventato difficilissimo, mi sembra, far emergere in Cina informazioni e visioni alternative alla narrazione dominante, e sondare attraverso la loro analisi l’esistenza di eventuali movimenti di opinione autonomi.
Dubito, in ogni caso, che Xi Jinping abbia mai goduto di una fiducia “cieca” o di un’ammirazione “sconfinata”. Di un consenso diffuso credo di sì, e forse tutto sommato abbastanza trasversale. Un fattore importante di questo consenso, secondo me, è che Xi Jinping con la sua narrazione incentrata sulla recuperata forza, grandezza, potenza della Cina, è riuscito a captare e a proiettare aspirazioni e desideri molto radicati nella società cinese, anche fra gli intellettuali: non dimentichiamoci che la retorica del sogno della “grande rinascita” e nello stesso tempo della Cina ripetutamente “umiliata” dalle potenze straniere, pur enfatizzata e strumentalizzata al massimo da Xi Jinping, è un leitmotiv ricorrente della storia della Cina moderna. Il punto è che l’attuale narrazione della Cina come grande potenza rischia di essere un’arma a doppio taglio, perché finisce per far percepire ai cinesi stessi che la Cina sia molto più forte e più sviluppata di quello che è in realtà, nascondendone ai loro stessi occhi le tare e le debolezze strutturali.
Ne La vera storia di A Q, Lu Xun individuava fra le peggiori tare del “carattere nazionale” cinese le tendenze psicologico-culturali alla megalomania e a dimenticare gli eventi spiacevoli o imbarazzanti, rielaborando le proprie sconfitte in modo da farle apparire a se stessi come vittorie. Ecco, mi pare che il modo in cui il PCC ha gestito la storia del coronavirus abbia riattualizzato parecchio le visioni di Lu Xun. Tornando alla questione della “forza”, quando nei primi tempi della crisi la leadership del Partito pareva essersi indebolita, subito sono emersi degli attacchi diretti al presidente che sarebbero stati altrimenti impensabili in altre circostanze; segno, io credo, che chi aveva lanciato quelle critiche sperava che queste avrebbero avuto un largo seguito, altrimenti non mi spiego il perché del prendersi un simile rischio.
Poi però la reazione energica del Partito, la risolutezza mostrata dal leader, l’efficacia con cui sono state portate avanti le misure di prevenzione e controllo, insieme alle penose figuracce di quasi tutti i governi occidentali, che davvero si sono messi d’impegno per dimostrare non tanto la superiorità del modello cinese, quanto l’inferiorità delle nostre classi dirigenti, hanno rovesciato repentinamente la situazione, e così è stato tutto sommato abbastanza facile per Xi Jinping restituire alla Cina la sua vagheggiata immagine di potenza efficiente, responsabile, benevola, e perfino avanzata. Io credo però che tutte quelle immagini e quei twit che abbiamo visto, dagli italiani che cantano l’inno nazionale cinese sul balcone alle illazioni che il virus potesse essersi originato in Italia o portato dai militari americani, siano state per la propaganda cinese meno una strategia di soft power che un tentativo di riconsolidare il consenso dei cittadini, da un lato esaltandone l’ego nazionalista e dall’altro alimentandone il vittimismo (i fenomeni di razzismo avvenuti nei paesi occidentali contro i cinesi, per esempio, sono stati ampiamente strumentalizzati dai media cinesi).
Queste aggressive campagne di comunicazione, però, in futuro potrebbero rivelarsi un boomerang, così io tendo a leggerle più che altro come una manifestazione del nervosismo della leadership di Xi Jinping di fronte al rischio di perdere la propria immagine infallibile di forza. Ma la partita, in cui a un certo punto la Cina sembrava aver fatto una rimonta incredibile, è ancora aperta, e il finale quanto mai incerto. Già ora arrivano delle piccole revisioni sulle stime dei morti di Wuhan, che non solo rinforzano la percezione già forte che i leader cinesi siano poco credibili, ma per giunta a me sembrano suggerire che a fronte della sua ostentata indifferenza nei confronti dell’opinione pubblica occidentale, il governo cinese nasconda invece una certa insicurezza.
Bisognerà vedere che cosa succederà in futuro. Se le nuove configurazioni economiche e politiche della globalizzazione saranno tali da ridimensionare l’espansionismo della Cina, è possibile che il consenso interno nei confronti di Xi Jinping subirà una certa erosione, in primis nel Partito e poi nei ceti più colti e benestanti. A quel punto credo che il Partito dovrà rivedere le proprie strategie di governance. Certo finché le nostre società continuano a reagire in questi modi scomposti, e i nostri dirigenti continuano a operare senza offrire uno straccio di visione del futuro, si continuerà a offrire al governo cinese un’autostrada non solo per penetrare nei tessuti economici e politici delle nostra società, ma anche per reclamizzare favorevolmente il proprio modello politico-sociale.
Ren Zhiqiang è scomparso da circa un mese, dopo avere criticato duramente la gestione di Xi Jinping della crisi, accusandolo sostanzialmente di riportare la Cina al tempo di Mao, abbandonando il dibattito interno che ha giovato all’economia del paese, e definendolo “un clown nudo che insiste nel ruolo dell’imperatore”. Come procede il dibattito sulla libertà di parola nei social network e nella stampa locale al tempo del coronavirus?
Altra domanda a cui è difficilissimo rispondere, per le ragioni a cui ho già accennato poco fa. Vorrei però mettere in guardia contro il rischio di suggerire accostamenti, un po’ semplicistici, fra Xi Jinping e Mao Zedong. Non fosse altro che Mao era un rivoluzionario, mentre Xi Jinping è un conservatore. La Cina di oggi, va da sé, è molto diversa da quella di Mao, e anche la politica cinese è diversa. Soprattutto dovremmo capire meglio in quali modi specifici viene esercitata, oggi, la repressione politica e culturale in Cina. Se sicuramente Xi Jinping ha riportato in auge molti discorsi maoisti, va comunque detto, prima di tutto, che il Partito oggi utilizza questi discorsi più che altro in modo simbolico (così come è simbolica, per lo più, la violenza della repressione esercitata contro chi trasgredisce ai limiti “sulla libertà di parola”), e in secondo luogo che gli elementi ideologici di matrice maoista, oggi come oggi, vengono chiamati in causa selettivamente facendo da corredo a visioni e pratiche sociali improntate da ben altre ideologie, molto più influenti nella Cina di oggi, come il nazionalismo e il neoliberismo.
Né giova dipingere Xi Jinping come un tiranno capriccioso pateticamente attaccato al potere. Significa non tenere conto dell’ampio sostegno dato dagli apparati del Partito alle sue politiche così come il fatto che le pulsioni autoritarie oggi sono tendenze epocali in crescita in moltissimi paesi del mondo, incluso il nostro. Quanto alla domanda che poni, ti direi a occhio che dubito che nella stampa locale cinese si possa dire alcun che, dato che questa dipende direttamente dagli organi culturali amministrati dagli apparati ufficiali. In internet, e in particolare nei social network, penso che ci sia qualcosa, ma anche lì gli spazi sono fragilissimi ed estremamente franosi (non credo che i post più controversi – e per essere considerati controversi oggi in Cina ci vuole davvero poco – durino molto a lungo). Però non ho fatto delle ricerche estese in merito. Come esempio concreto posso portare solo il “diario di Wuhan” della scrittrice Fang Fang, di cui mi sono occupato abbastanza nell’ultimo mese e mezzo. (vedi qui e qui) Come ho già scritto in precedenza, il diario, inizialmente pubblicato sulla pagina Weibo dell’autrice, ha avuto in Cina un enorme seguito di lettori, per il suo avere offerto un resoconto autentico, sofferto e umano della quarantena di Wuhan.
Tuttavia, dato che nel suo diario Fang Fang mette a nudo troppe verità sgradite, e dato che il diario finisce inevitabilmente per contestare l’operato dei funzionari dello Hubei e le manipolazioni della propaganda (anche se questa contestazione non era, inizialmente, l’intento principale del diario), il diario non solo è stato ben presto censurato, ma pure è diventato un po’ alla volta oggetto di numerosissimi e pesantissimi attacchi in internet che hanno cercato di intimidire Fang Fang accusandola di varie colpe, ma soprattutto quella di infangare con le sue “maldicenze” su Wuhan l’immagine della Cina nel mondo. Le autorità su Fang Fang non si sono espresse, ma i media ufficiali (per esempio il Global Times) hanno abbracciato e sostenuto le manifestazioni “spontanee” dei netizens, che peraltro in generale sono state articolate secondo gli schemi delle visioni ideologiche promosse oggi dal Partito. Alla fine Fang Fang ne è uscita bene, si è difesa con forza dalle critiche, ha goduto a sua volta di un forte sostegno da parte di un nutrito gruppo di lettori “liberali”, e il suo diario alla fine verrà presto pubblicato in moltissimi paesi occidentali, presumibilmente con la solita etichetta “banned in China” che piace tanto agli editori occidentali.
C’è una certa ironia in questo processo: in fondo sono stati i censori cinesi che da un lato censurando il diario lo hanno politicizzato, e dall’altro politicizzandolo hanno attirato l’interesse degli editori occidentali. Alla faccia del soft power. Comunque al di là delle singole ricadute degli eventi sull’autrice, quello che ha mostrato la vicenda del diario, secondo me, è che da un lato continua a sopravvivere in internet un pubblico moderato che fa prevalere i valori di un raziocinante “senso comune” (una parola chiave del testo di Fang Fang) che antepone un bisogno di verità individuale al mito collettivo del nazionalismo; dall’altra però, mette in evidenza in modo inquietante il fenomeno abbastanza tipico, e non solo in Cina, dello squadrismo mediatico da parte del “popolo” della rete, spesso manipolato dalla “bestiale” propaganda di certi politici, molto efficace nell’isolare le singole menti pensanti (e parlanti) intimidendo le altre. Di fatto se Fang Fang, toccata sul vivo essendo di Wuhan, si è esposta, non mi risulta che altri scrittori di alto profilo, tolto Yan Lianke, abbiano fatto qualsivoglia commento pubblico sulle vicende in corso, né abbiano mostrato solidarietà nei confronti dell’autrice quando questa veniva attaccata. Mentre Fang Fang si sforzava di dare voce alle ansie e alle sofferenze degli abitanti di Wuhan, Mo Yan componeva calligrafie scrivendo frasi di incoraggiamento al popolo cinese in linea con gli slogan ufficiali del Partito, ampiamente pubblicizzate dai media cinesi.
Quali sono gli effetti di questa crisi sulle comunità rurali cinesi?
Appunto, questa domanda ci riporta ai problemi di cui sopra. Purtroppo devo rispondere che non ne ho la più pallida idea, e non solo perché non sono personalmente molto informato sull’argomento. In realtà qualche piccola ricerca per capire come sono stati investiti dalla crisi i cosiddetti “gruppi deboli” (ruoshi qunti), in Cina, avevo anche provato a farla. Era una cosa che mi interessava, e nello stesso tempo una domanda abbastanza ovvia da porsi: quando l’epidemia è scoppiata da noi, e il governo ha cominciato a mettere tutto in lockdown, un problema sociale che è apparso subito evidente è che tanti lavoratori precari, a causa dell’interruzione forzata delle attività economiche, avrebbero perso le loro già precarie fonti di sostentamento economico.
In Cina questa precarietà è massima. I lavoratori “subalterni” possono perdere il loro lavoro in un attimo, dato che moltissimi di loro, pur acquartierati nelle metropoli, di fatto sono contadini che migrano in città dalle campagne, e che nelle città hanno uno status subordinato e un accesso molto limitato al welfare. Il problema, naturalmente, ha toccato in primis i lavoratori dello Hubei, la provincia in cui il contagio ha colpito con maggiore violenza e in cui la quarantena è stato condotta con i metodi più draconiani. Cosa ne è stato di tutti questi lavoratori? Come hanno vissuto la quarantena? Come è stato affrontato il loro disagio economico? Come sono stati trattati dalle autorità e dal resto della popolazione? Non mi pare che dell’argomento si sia parlato molto nei media occidentali. Una ragione, certo, è che la crisi del coronavirus ha avuto, come alcuni hanno rilevato, un trattamento a focalizzazione soprattutto “cetomediocentrica”, ma un’altra ragione è che non è per niente facile in Cina, soprattutto oggi, dare rappresentazione e rappresentanza alle esperienze di emarginazione e sofferenza.
Perciò l’altra ragione per cui i media occidentali hanno parlato poco dei lavoratori cinesi o delle campagne è, forse, anche che non era facile trovare materiale sulle esperienze reali di questi ultimi. Io stesso ho provato a cercare informazioni in cinese ma non ho trovato quasi nulla. La propaganda ufficiale del Partito, ai tempi di Xi Jinping, più che mai richiede che dei fatti sociali vengano date principalmente rappresentazioni positive, ottimistiche, incoraggianti: il compito dei lavoratori culturali oggi è principalmente diffondere “energia positiva”. Ciò ha significato che, nella propaganda ufficiale della “guerra del popolo cinese contro il virus”, il dolore e la sofferenza potessero essere presentate, tendenzialmente, solo come forme costruttive di lotta e sacrificio finalizzate allo scopo eroico di difendere il paese.
Quanto alle sofferenze prive di senso, le tragedie personali senza riscatto, la disperazione priva di uno sbocco edificante, tutte queste cose fanno molta fatica a trovare spazio, primo perché costituiscono “energia negativa”, secondo perché il loro semplice affiorare, in uno scenario narrativo tutto teso a dimostrare i trionfi ufficiali, costituisce di per sé una contronarrazione critica.
La Cina, nonostante la gestione iniziale del coronavirus, sembra essere in qualche modo riuscita a cambiare la narrazione a suo vantaggio. È possibile che siano bastate delle spedizioni di materiale sanitario per cambiare la percezione degli eventi, parzialmente anche in occidente?
A questa domanda ho già parzialmente risposto. Bisognerà fare i conti alla fine. Certo bisogna ammettere che la macchina della propaganda cinese sta facendo in questo senso un lavoro davvero fenomenale. Mi sembra, però, che in questa cosiddetta diplomazia della mascherina stanno avendo un ruolo importante anche le aziende e le unità di lavoro cinesi, i privati e i cinesi della diaspora: c’è, dietro questo sforzo, anche molta solidarietà autentica, non bisogna dimenticarlo. Però non sopravvaluterei l’impatto di queste misure più che altro simboliche nel lungo termine. Certo, è vero che qualche giorno fa un sondaggio diceva che il 36 % degli italiani simpatizza per la Cina mentre solo il 30 % guarda positivamente agli Stati Uniti.
Queste però sono visioni umorali, e in quanto tali molto volatili. Più utile per capire gli atteggiamenti futuri nei confronti della Cina, soprattutto nel nostro paese che più di altri è sempre in bilico, sarà vedere come si riassesterà l’ordine mondiale quando la crisi sarà, speriamo, in larga parte alle spalle. Ovviamente la chiave di tutto per noi sarà il futuro dell’Unione Europea. Finché ci sarà un’Europa frammentata e divisa, la Cina avrà un gioco molto facile ad accrescere la propria influenza non solo economica, ma anche politica, nei singoli paesi dell’Unione. E, grazie a tale influenza, manipolare a proprio vantaggio la percezione della propria immagine, come hanno sempre saputo fare molto bene gli Stati Uniti.
Questo ovviamente vale soprattutto per un paese disastrato come l’Italia, anello debole della UE, con un’economia fragilissima, una società in crisi perenne, una politica allo sbando dominata da avventurieri che non sanno a che santo votarsi. Inutile dire che l’Italia è particolarmente vulnerabile a questo tipo di influenza, per molti motivi. E la risposta dell’Europa, alla crisi che sta colpendo tutti i paesi e non solo l’Italia, mette a dura prova anche le speranze dei più convinti europeisti.
Recentemente abbiamo assistito a un’allarmante impennata di episodi di razzismo verso cittadini di origine asiatica in occidente, e allo stesso tempo verso cittadini di origine straniera, in particolar modo africana in Cina. In che modo la crisi del coronavirus ha ravvivato i pregiudizi?
Per prima cosa individuerei due livelli distinti di razzismo: uno strutturale, radicato, legato al modo in cui i “popoli” percepiscono se stessi il relazione all’“altro” per ragioni storiche di lunga durata. Un altro di tipo umorale, legato invece ai sentimenti sociali dominanti del momento, che si alimenta e viene alimentato a seconda delle circostanze, generalmente di crisi.
Se il primo razzismo da noi trova ovviamente le sue radici nell’idea storicamente radicata della superiorità dell’Occidente “moderno”, il secondo trova la sua origine contingente nelle angosce delle popolazioni occidentali rispetto alla disgregazione dei nostri modi di vivere e del nostro benessere, angosce tipicamente strumentalizzate dalle destre che le hanno rielaborate alimentandole sotto forma di ostilità nei confronti del cosiddetto “immigrato”, ovvero dell’antico abitante del “terzo mondo” che ha osato mettersi alla nostra stessa stregua cercando di ritagliarsi un posto nelle nostre società avanzate. L’iniziale “cinesità” del virus ha dato a queste pulsioni razziste la possibilità di trovare, abbastanza impunemente, una nuova valvola di sfogo, e nello stesso tempo di fornire delle risposte abbastanza rassicuranti riguardo alla “nostra” presunta maggiore capacità di difenderci dall’epidemia (vedi le deliranti dichiarazioni di Zaia ormai passate alla storia).
Ma il virus ha punito questa hubris ed è diventato il contrappasso della nostra stupidità: si soffiava sul fuoco della paura contro un nemico immaginario, ma visibile, da additare, ed ecco che davvero il nemico questa volta arriva, però invisibile, non su dei barconi ma attraverso delle strette di mano fra manager della Baviera e della Padania. Ironia della sorte! Quanto alla Cina, bisogna ricordare che anche lì i due livelli di razzismo sono entrambi molto forti, sebbene si articolino in maniera un po’ diversa. Anche in Cina, infatti, c’è un marcato razzismo strutturale, determinato in larga parte dalla visione dominante dello sviluppo storico strutturata da schemi di pensiero ottocenteschi. Essendo tutte le gerarchie costruite da sempre tipicamente nella storia della Repubblica Popolare sulla base dell’opposizione “avanzato/arretrato”, c’è una fortissima tendenza in Cina a vedere le popolazioni dei vari paesi come superiori o inferiori in base al loro livello di sviluppo, soprattutto economico.
Una tendenza che nell’era di “riforma e apertura” ha beneficiato enormemente gli occidentali, che a lungo hanno goduto di una posizione privilegiata nella società cinese in quanto presunti portatori di conoscenze e competenze utili allo sviluppo della Cina (quanti di noi non si sono spacciati in Cina, magari una ventina di anni fa, come “foreign experts”?). Superfluo dire che al contrario questo schema di ragionamento ha penalizzato parecchio coloro che vengono invece da zone più povere e meno sviluppate. Ma oggi nel mondo le cose sono cambiate e anche i cinesi chiedono, giustamente, più rispetto. Il punto è che le autorità cinesi non si limitano a chiedere rispetto.
Oggi più che mai il nazionalismo è usato in Cina come strumento per contrastare le tendenze liberali interne e una tipica strategia della propaganda cinese è quella di dipingere a sua volta quelle occidentali come delle “forze ostili” che minacciano la Cina cercando di indebolirla. Un risultato eclatante, in questo senso, è la fortissima presenza in internet, negli ultimi anni, di eserciti di “troll” nazionalisti che non solo difendono l’orgoglio della Cina attaccando tutti coloro che sono reputati colpevoli di avere ferito i sentimenti della Cina, ma pure diffondono, insieme al loro amore per la patria, anche sentimenti xenofobi e visioni razziste.
Questi sentimenti xenofobi e razzisti, nell’attuale crisi, per quanto in parte spontanei sono stati comunque fomentati della narrazione ufficiale della propaganda tesa a rimarcare l’irresponsabilità dei paesi occidentali e dei loro abitanti di fronte all’epidemia per sottolineare al contrario l’efficienza e la responsabilità delle autorità cinesi e dei cinesi stessi. Insomma come recita lo slogan cinese “siamo tutti sulla stessa barca”: una barca che non vuole vedere che stiamo affondando e preferisce invece ricorrere alla vecchia pratica dello scaricabarile e del capro espiatorio per convincersi che la tempesta è colpa degli altri e che noi sapremo comunque cavarcela meglio.
La Cina è in qualche modo prigioniera di tradizioni e superstizioni che ne hanno segnato la storia recente (e non solo): dal revival del Qigong degli anni ’80 che è sfociato poi nella persecuzione del Falun Gong, passando per i rimedi miracolosi di una parte della medicina tradizionale cinese che ha portato sull’orlo dell’estinzione varie specie animali fino alla crisi del coronavirus che forse potrebbe essere stata innescata dalla vendita di selvaggina. Quand’è che la Cina farà i conti con gli aspetti più superstiziosi della propria cultura?
In realtà non sono convintissimo che la Cina sia più predisposta a coltivare atteggiamenti superstiziosi rispetto ad altri paesi, né credo che sia opportuno suggerire che la crisi del coronavirus sia in qualche modo collegata agli aspetti superstiziosi della cultura cinese. La questione va al di là dell’esistenza dei wet market o della passione di certi cinesi per i cibi strani dalle presunte proprietà medicamentose.
Anche se mi pare abbastanza ovvio che certe caratteristiche sociali della Cina di oggi, in primis la convivenza, a volte gomito a gomito, fra le pratiche spesso ancora molto arretrate della Cina rurale e i modi di vivere ormai piuttosto avanzati delle iperconnesse conurbazioni cinesi, che nello stesso tempo costituiscono dei gangli importantissimi nella rete del capitalismo globale, contribuiscano senz’altro a favorire la diffusione di questo tipo di epidemie.
Quello che dici, però, mi stimola una piccola riflessione estemporanea, connessa proprio alla nozione cinese di “superstizione”. La parola superstizione, infatti, come sappiamo in Cina è dotata di un significato molto denso, visto che è tutta la storia della modernità cinese, in particolare quella guidata dal Partito Comunista, ad avere come suo elemento essenziale la lotta contro le “superstizioni”, ovvero contro le visioni e le pratiche della cultura cinese tradizionale considerate irrazionali, antiscientifiche, arretrate e quindi incompatibili con la modernizzazione della Cina e dei cinesi.
Poi però, paradossalmente, le varie pratiche popolari bollate come superstiziose, gettate generalmente dalla porta principale, finiscono quasi sempre per ritornare dalla finestra, magari riempiendo il vuoto lasciato dall’abbandono delle visioni e delle pratiche ufficiali “moderne” tipiche dell’“era” precedente (mi riferisco ai dogmi dell’ideologia maoista, a loro volta tacciati di “superstiziosità” quando il CCP ha intrapreso la via delle riforme). Perché? Credo che qui ci sia la chiave alla tua domanda. È perché l’educazione cinese è incline a favorire il radicamento di atteggiamenti dogmatici? È perché i dirigenti condannano retoricamente le “superstizioni” tradizionali ma poi sono i primi a godere di queste stesse pratiche? È in virtù della resilienza dei modi di vivere tradizionali, ovvero del fatto che la forza della tradizione si rivela maggiore di quella della standardizzazione moderna imposta dall’educazione ufficiale? È perché la riappropriazione dei modi di vivere popolari è una delle poche forme di resistenza possibili alla pletora di norme imposte dall’alto, ovvero un modo abbastanza spontaneo e ingenuo di esercitare la propria libertà? Sono questioni che meriterebbero di essere esplorate.
La Cina è una società basata sul controllo, ma per esercitare efficacemente il controllo in quelle aree della vita sociale considerate maggiormente critiche per il mantenimento della “stabilità”, i governanti cinesi spesso tendono a fare molte concessioni in quelle aree che non costituiscono una minaccia per il sistema. Ma le norme nella Cina di Xi Jinping stavano comunque diventando più stringenti.