La Cina ha trasformato lo Xinjiang in un laboratorio per il controllo sociale

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A forza di usare in ogni occasione termini come distopico, dittatura, regime, etc. i termini hanno perso man mano valenza e significato fino a diventare delle parole vuote, svuotate della loro essenza.

Ci sono invece al mondo alcuni luoghi dove la definizione “regime distopico” ha ancora un suo preciso valore.

Quello a cui il governo cinese sta sottoponendo la vasta regione autonoma dello Xinjiang, in Cina occidentale, è qualcosa di inedito poiché mescola efficacemente le tradizionali strategie per il controllo sociale con le più recenti tecnologie.

Lo Xinjiang è molto lontano dalle sfavillanti luci di Shanghai o dalle altre più o meno sfavillanti megalopoli cinesi. La regione è abitata dalla minoranza etnica musulmana Uigura, che ne ha plasmato la storia. La regione, così come il Tibet, è attraversata da pulsioni indipendentiste, e da decenni rappresenta una spina nel fianco.

Secondo un recente reportage di Josh Chin e Clément Bürge del Wall Street Journal, in giro per Urumqi, vi sono checkpoint dotati di scanner identificativi nella stazione dei treni e per le strade che entrano ed escono dalla città.

La polizia è dotata di dispositivi portatili in grado di scannerizzare gli smartphones alla ricerca di app di chat criptate, di video politici, ed altro contenuto sospetto.

Se i cittadini locali vogliono fare il pieno di benzina, devono munirsi di carta di identità e sottoporsi ad un riconoscimento facciale.

Pochi giorni fa è stata lanciata una campagna senza precedenti per la collezione forzata di campioni di DNA per decine di migliaia di abitanti.

La vita oggi nelle grandi città dello Xinjiang è dunque scandita da una continua serie di controlli, scansioni della retina, della faccia, a volte dell’intero corpo, telecamere di sorveglianza, prelievi di codice genetico, liste di proscrizione, sequestri di passaporti, campi di detenzione travestiti da scuole, etc.

Il reportage di Chin e Bürge, cita numerosi esempi che illustrano quali siano le conseguenze di vivere in una società fortemente dipendente dalle tecnologie che intraprende la strada del controllo sociale indiscriminato.

In tutto il paese in realtà assistiamo ad una corsa delle autorità a munirsi di regole sempre più stringenti, e di dotarsi di tecnologie ancora più efficaci ed invasive.

Tutto il 2017 è stato segnato da nuove restrizioni sul web e sugli streaming video, nuovi regolamenti sulle VPN, nuovi siti aggiunti alla già lunghissima lista nera.

Ma quello che accade oggi nello Xinjiang, va ben oltre.

Dopo i violenti attentati terroristici del 2014 attribuiti agli estremisti islamici Uiguri, ispirati, secondo le autorità cinesi, da alcuni messaggi ricevuti dall’estero, la Cina ha trasformato la regione in un gigantesco laboratorio tecnologico dove sperimentare sofisticate ed invasive misure per il controllo sociale.

Secondo Jiang Jun, dirigente della compagnia di Guangzhou CloudWalk Technology Co., che ha realizzato gli algoritmi per il riconoscimento facciale utilizzati nei distributori di benzina nella regione, durante una fiera di settore, lo Xinjiang è diventato la regione nel mondo più controllata. Per ogni 100.000 persone, vengono utilizzate infrastrutture tecnologiche che in altre parti della Cina vengono usate per monitorare milioni di abitanti.

Gli attivisti per i diritti umani cinesi e stranieri hanno denunciato come quello che sta accadendo nella provincia, potrebbe essere esteso a tutto il paese. Siamo di fronte insomma ad una sorta di test per sperimentare queste nuove tecnologie per controllare rigidamente le attività dei cittadini cinesi online e offline.

Il problema della stabilità della regione è di primaria importanza per il governo centrale, soprattutto in previsione dell’ambizioso progetto economico della Nuova Via della Seta, ovvero l’apertura di una rotta commerciale che connetterà l’Asia occidentale, l’Europa e l’Africa alla Cina, attraverso investimenti massicci nei paesi coinvolti, nel nome dello sviluppo commerciale globale.

Lo scorso anno, Xi Jinping ha nominato un nuovo segretario di partito nello Xinjiang, Chen Quanguo, che in precedenza aveva gestito l’altrettanto controversa questione tibetana. Allora Chen aveva puntato molto sulla diffusione delle stazioni di polizia nell’area, per cercare di porre un freno alla preoccupante sequenza di auto immolazioni di monaci tibetani in protesta contro il regime.

Sotto Chen, il controllo della polizia nello Xinjiang è aumentato esponenzialmente. Secondo Human Rights Watch, i dipartimenti di polizia locale hanno cominciato a dotarsi di sistemi di scannerizzazione facciale 3d, sequenziatori di DNA, sistemi di analisi vocale, etc.

Durante il primo quarto del 2017, il governo ha annunciato investimenti in progetti di sicurezza per oltre 1 miliardi di dollari, contro i 27 milioni del 2015.

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