On the road

Come generazioni di giovani cinesi scoprono la gioia del viaggio – e la società cambia.

di Nicolas Totaro-Apfel

Chi di questi giorni si mette in viaggio nel “ Regno di mezzo”, ormai non viene più accompagnato su route prestabilite dal partito, non viene più indirizzato come in altri paesi comunisti a ideali fermate, creando immagini ovviamente false.

Era così in Birmania, subito dopo l’apertura, come ricordava Tiziano Terzani nel suo libro „Un indovino mi disse“ nel 1995, ma anche nella Cina del 1973 non solo a Nixon fu mostrato il lato dorato della Cina, visitatori stranieri erano ospiti straordinari che godevano di molti privilegi e che all’inizio dell’apertura venivano per l’appunto guidati per i posti più presentabili, privi di sofferenza.

Oggigiorno le stesse regole vigono in modo più estremo nella Corea del Nord.
In Cina invece da alcuni decenni a questa parte non si ha più bisogno di fidarsi delle voci dei telegiornali e degli amici turisti-guru che avendo speso qualche settimana in Asia credono di aver acquistato la competenza di parlare liberamente di gente e costumi.

L’immagine trasmessa oggigiorno è purtroppo soprattutto negativa.

Giovani lavoratori uniformati in fabbriche di Jeans, migranti stagionali che vivono alla giornata, generazioni che crescono passivamente nello smog delle grandi città, senza opporre resistenza al regno del partito.

Le immagini che vengono create da questo tipo di storie sono inevitabilmente semplificate.

Appagano il bisogno primordiale di ogni società di trovare un’ antitesi nell’ “altro”.

In questo caso i gialli, i cosiddetti comunisti, quelli che con gioia si lasciano uniformare da pazzi che decenni prima erano capaci di concepire folli campagne come la rivoluzione culturale o il grande salto in avanti.

Un retrogusto che sempre resta è questo: cinesi, popolo poco conosciuto e acritico, rozzo nel suo puro materialismo e seppure abbia acquistato semplici libertà (quella di commerciare e investire per esempio), resta deprivato di una vera e propria libertà culturale e politica, la mancanza della quale non sembra sentire.

Solo chi si mette in viaggio per la Cina ha la possibilità di verificare queste immagini.

Ed è così che anche io trovo la mia via per strade meno affollate in questo paese dalla storia millenaria.

Specie in quest’ anno, nelle vacanze primaverili ho la possibilità di viaggiare per lo Yunnan, regione al sud della Cina, al confine con il Laos, il Myanmar e il Vietnam, grande quanto la Germania e i Paesi Bassi messi insieme.

Chi si mette in rotta per gli ostelli della gioventù cinesi che spuntano come funghi nei posti turistici più frequentati, come Shanghai, Beijing, Xian, Guilin, Chengdu eccetera, ma anche per posti da considerare lontano dai classici itinerari, incontrerà i soliti turisti occidentali, studenti di scambio stranieri come lo sono io, gente che si è presa una pausa di uno o due anni dal lavoro, Hippie, Outsider che hanno rinunciato a stipendi e orari fissi e si sono ritirati su isolette nelle baie di Hongkong.

Da alcuni anni si sono aggiunti nuovi tipi di viaggiatori a questo mix piuttosto scontato, già presente in ogni ostello della gioventù del pianeta.

I nuovi arrivati finora erano cinesi dal portafoglio gonfio, ricchi avventurieri che avevano fatto la loro fortuna all’estero o in Joint Ventures. A questi ultimi fanno da qualche tempo anche compagnia le mitiche coppie di ceto medio in uniforme Jack Wolfskin e scarpe da montagna,  che si trovano ormai un po’ dappertutto.

In contrasto con molti paesi europei influenzati da film come “Eurotrip” e dalla generazione dei sessantottini, che coltivano il mito della strada, i giovani finora spesso rispecchiavano il cliché dei giovani seguaci di Confucio per i quali la parola del genitore va assolutamente rispettata, e che perciò scelgono lavoro e residenza in base al verdetto dei genitori.

Anche questo invece come tante altre tradizioni di questa società, che ha saputo ammortizzare la scossa provocata dalle riforme di Deng Xiao Ping in modo assai efficace economicamente, ma che sul piano sociale e personale è stata presa alla sprovvista, sembra stia cambiando .

Wang, un ragazzo dal carattere assai mite, proveniente di Shandong aveva prima seguito i consigli dei suoi genitori sullo studio.

Dopo il baccalaureato invece ha cambiato strada. Adesso studia a Qingdao.

Lo incontro a Shaxi, un paesino popolato dalla minoranza dei Bai, al nord del Yunnan.

Mi dice che quello degli studenti in viaggio é un fenomeno cominciato solamente di recente.

È dal 2008 che secondo lui le strade della Cina si affollano sempre di più di giovani in ricerca di nuove esperienze.

Le vacanze estive e primaverili non vengono più solo usate per lo studio, che è per molti l’unica possibilità di rilassamento prima di una vita professionale straziante con a volte solo pochi giorni di vacanze mobili (per chi lavora in banca a volte perfino solo due giorni).

Se prima il sogno della salvezza per questi laureati era l’estero, anni di studio in Australia per ottenere una green card, adesso chi si ritrova addosso un po’ di soldi il sogno lo vive prima che può.

E chi non ce li ha fa il volontario negli ostelli, come le ragazze che a Shaxi lavorano per vitto, alloggio e una mancia, nell’ ostello di “Maestro Wang”, professore in una delle università élite del paese, uomo di grande cultura come mi dice Fen Fen, una delle volontarie.

Si potrebbe quasi dire che si tratta di un piccolo fratello liberale di quel movimento maoista che voleva durante la rivoluzione culturale a forza far conoscere ai giovani l’ agricultura. Oggi in campagna i giovani ci vanno di loro libera scelta.

Ma non è questa nuova tendenza forse solo una brutta copia low budget del folle turismo aggressivo che oramai ha invaso la muraglia cinese, l’armata di terracotta o i monti gialli, i Huang Shan, e del quale troppo spesso facciamo come turisti occidentali anche noi parte?

L’impressione che gli giovani studenti ed ex-studenti in viaggio danno è quella di un turismo Weibo, cioè di quella piattaforma di microblogging con più di 300 milioni di iscritti sulla quale condividere immagini e avvenimenti della propria vita.

L’essenza di questo tipo di turismo alla fine è questa: Quello che appare nell’immagine è verità.

Non esistono mezze emozioni.

Tutto è splendente attraverso le lenti delle Nikon e Canon.

Un viaggio senza foto è come se non sia mai esistito.

Viaggi vengono così mistificati e ogni opportunità di trarre qualcosa dal viaggio, portare qualcosa nel bagaglio che non sia commestibile, diverso da foto che presto ingialliranno, viene sprecata.

Si potrebbe riattaccare la vecchia cantilena dei tempi che cambiano, dell’ attenzione che non dura ormai più della lunghezza di un video youtube.

Forse tutta colpa dei Beatniks, o di quella tradizione borghese di fine diciannovesimo secolo di mandare i figli in viaggio per l’Europa per viaggi di educazione durante i quali imparare le varie lingue europee.

Questi viaggi di formazione, per l’appunto viaggi di educazione non significavano pura gioia, ma nemmeno un rozzo investimento in “capitale umano”.

Quei viaggi volevano dare un’ opportunità di creare un proprio carattere. L’equivalente letterario, il romanzo di formazione, raffigura esattamente questo: una trasformazione.

Non è perciò forse un punto di vista europeo molto particolare, cresciuto su decenni di cultura giovanile, in gran parte frutto della rivolta dei sessantottini, che ci fa credere che un viaggio compiuto nel vero senso della parola debba avere a tutti i costi come scopo una trasformazione personale?

Non è forse il caso invece della precisa intenzione il motore di questa trasformazione?

Non è presuntuoso arrogarsi il diritto di giudicare una realtà così diversa, cresciuta con premesse totalmente differenti dalla nostra?

D’altro canto non bisogna dimenticare la tradizione dei pellegrini buddhisti che da secoli si dirigono verso le quattro montagne sacre in Cina, facendo così un viaggio tutt’altro che turistico, puramente spirituale.

Chi dice poi che i Beatnik non possano avere i loro discepoli anche in Cina?

Ed è proprio un ragazzo incontrato a Shaxi, questo bucolico paesino, difeso strenuamente dalla modernizzazione aggressiva che trasforma pacifiche cittadine in metropoli pseudo-occidentali, che mi toglie le parole di bocca.

Bullet, come si fa chiamare, 26  anni, é un rilassato cantonese che ha speso cinque anni a fare il militare, e che si è dopo messo in viaggio per vari paesi dell’Asia: Nepal, Vietnam, e per la Cina, “sono andato un po’ dappertutto”.

Adesso lavora come cuoco in un Café sulla piccola piazzetta del paese e ha acquistato un terreno per la durata di venti anni.

Perciò resterà qui per uno o due anni. Mi dice che vorrebbe anche andare a visitare paesi europei, ma senza un reddito e una residenza fissa le cose si mettono male per chi vuole andare a respirare aria europea.

Pur essendo un paese ormai in molte regioni sviluppato economicamente, le difficoltà per ottenere un visto in paesi occidentali sono ancora immense e così Bullet seppur abbia una grande voglia di andare ad esplorare l’Europa ancora non ne ha avuto l’occasione.

È questa una delle grandi ipocrisie dell’ Occidente rispetto a altri paesi, i cosiddetti “in via di sviluppo”: apertura economica sì, ma quella culturale avviene solo per canali prestabiliti, come quello dello “scambio culturale”.

Gli sforzi da fare per ottenere un visto dalla Cina per l’Europa assomigliano molto a quelli che servono da ogni altro paese del sud globale.

Foto che mostrano gli ospiti insieme a chi li dovrà ospitare, a volte, come è nel caso di paesi come l’Indonesia o la Bolivia, perfino garanzie di quindicimila Euro per entrare in Germania. A trovarli!

A senso inverso invece il più grande ostacolo per noi occidentali sono collaboratori dell’ambasciata antipatici o orari di chiusura fissi.

Parlare con Bullet mi apre di nuovo gli occhi riguardo a questa grande ingiustizia, che tiene in gabbia e degrada molti giovani cinesi, dal loro canto spessissimo grandi ammiratori della cultura europea.

Bullet mi racconta della ragazza che aveva, che lavora a Shanghai e che adesso lui però si gode la libertà.

Bullet é un seguace della “cultura della foglia”, che viene in parte coltivata dal popolo locale degli Bai, e cresce in parte liberamente sui pendii delle vicine colline. Non si tratta di tè verde ovviamente.

Le regioni più remote vengono sottoposte a controlli meno rigorosi, e finché non si vende, anche nell’improbabile caso di essere scoperti, le pene non sono particolarmente gravi, mi fa sapere.

Bullet ha solo 26 anni, ma una vita piena di esperienze assai diverse alle spalle, cosa che solo pochi della sua generazione possono dire di se. La maggioranza viaggia al massimo per qualche settimana, solo dopo essersi laureati e aver trovato un posto di lavoro fisso.

Nei confronti dei viaggi avventurieri, del trekking, delle vacanze dalla monotonia delle metropoli, mostra disprezzo.

Secondo lui i vari diari di viaggio pubblicati recentemente in Cina sono scritti nello spirito sbagliato.

Si tratta di spacconate invece di mostrare come appunto nei vari romanzi di formazione, una vera e propria trasformazione avvenuta attraverso il viaggio.

“Hai letto per caso ‘On the Road’ di Jack Kerouac?” mi chiede.

Ha visto il film e ne sembra rimasto pesantemente influenzato.

Anche i suoi amici, una ragazza del posto, e un’ altro ragazzo cantonese, hanno letto il libro.

Partire per un viaggio e tornare con qualcosa nel bagaglio, qualche verità riconosciuta per la via.

Questo è quello che da sempre viaggiatori, come anche Tiziano Terzani cercavano e adesso sempre più giovani cinesi cercano, nell’Occidente spesso accusati di interessi puramente materialisti.

Arrivare e partire quando si vuole, vivere di canzoni sulla strada, con gente incontrata per caso.

Anche Bullet a Dali, l’antica capitale del regno Nanzhao ha vissuto questa vita, insieme a tanti altri, come la studente di giornalismo di Lanzhou al nord della Cina, che si è installata all’ostello per diverse settimane e ancora non ne vuol sapere niente di iniziare a lavorare, l’ex impiegata di un’azienda di software, che come dice, se ha soldi si riposa e viaggia finché non ne ha più, poi lavora ancora in qualche ostello della gioventù e così via.

Tutte queste sono storie di gioventù molto diverse da quello che il cliché asiatico ci detta di pensare: una gioventù che avendo acquisito stabilità economica non sta più solo a pensare ai soldi, ma che parla apertamente di politica, che si mette in viaggio per la Cina e inizia a vedere il proprio paese e i suoi problemi coi propri occhi e che è altamente interconnesso via Internet.

É l’annuncio di una società che dopo essere diventata sempre più materialista e disorientata, sembra svilupparsi in modo più liberale sul piano privato.

Sono questi forse insieme ai media sempre più coraggiosi, la società civile in forma dello spesso citato Sina Weibo i messaggeri del post-materialismo?

É questo l’inizio di una nuova Cina?

I decenni a venire ce ne daranno la risposta.

Autore: Nicolas Totaro-Apfel

Previous

Kai-Fu Lee contro la censura, invita 30 milioni di followers cinesi a seguirlo su Twitter

Cinaoggi.it nel mirino di truffatori online: attenzione

Next

1 commento su “On the road”

  1. salve sono un fotografo che a breve andrà in Cina_ avrei bisogno di un contatto con qualche associazione locale che promuove la cultura e la tradizione cinese. Nello specifico vorrei fare del volontario in una associazione al fine di conoscere meglio le tradizioni culturali, sociali e religiose di alcune etnie cinesi (tutto ciò nell’ottica di sviluppare un progetto fotografico che racconti la bellezza e sfacciettatura delle diverse etnie che abitano la cina).

    Rispondi

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.