Intervista a Daniele Mattioli

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Daniele Mattioli è un talentuoso fotografo umbro che lavora a Shanghai. Tra i suoi clienti vi sono il New York Times, Time Asia, Newsweek, Fortune, etc.

Com’è iniziata la tua passione per la fotografia?
Sicuramente ed istintivamente da subito! Mi ricordo che a 12 anni giravo per casa con una vecchia Istamatic senza rullini e scattavo a quello che vedevo …

Qual è stata la tua prima macchina fotografica? Quali sono i tuoi ricordi?
Appena ho avuto modo di potermi comprare una macchina mi sono preso una Praktica Bc1, una reflex che a quei tempi era a buon mercato. Spendevo più soldi in rullini che in macchine …

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Chongqing , una ragazza in un ristorante lungo lo Yangtze

Di cosa trattava la tua prima ricerca fotografica?
Scattavo di tutto, tutto ciò che potevo tradurre dalla realtà cercavo di impressionarlo in un rullino, poi i primi viaggi e le prime serie di foto: Istanbul e un viaggio in America.

Ci sono delle realtà o delle persone che hanno influenzato le tue scelte artistiche?
Dove vivevo, a Foligno, andavo spesso a trovare una mia amica che lavorava in un negozio di sviluppi e stampa, con lei, laureata in filosofia e fotografa appassionata, si parlava di tutto quello che poteva essere qualcosa in più al semplice scatto, l’anima che si dovrebbe trovare dietro lo scatto. Si ascoltava molto musica classica ed opera, avevo 22 anni e questo mi ha aiutato ad avere più profondità nell’approccio fotografico, capire che era una questione di cercare e muoversi tra la gente e capirla al di là della maschera che ognuno di noi indossa quotidianamente.

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Shanghai Biennale

Quanti paesi hai ritratto e quali sono quelli che ti hanno colpito di più e perché?
Ho visitato una cinquantina di paesi, pochi rispetto agli aerei che ho preso. Spesso, infatti, mi concentro e focalizzo in un paese come per esempio la Cambogia che ho visitato 6 volte, perché credo che un buon progetto fotografico abbia bisogno di considerare il tempo che passa, vederlo attraverso le stagione, rileggerlo e capirlo bene e poi tornare e carpire altri angoli.

Hai mai fatto delle scelte casuali che si sono rivelate delle ottime iniziative?
Sì, penso che la casualità sia legata comunque all’istinto, alla fine è come seguire un percorso prestabilito. Partire dall’Italia senza meta è stata forse una cosa già scritta che dovevo fare, la casualità di dove poi sono andato a finire beh, forse è solo una questione geografica!

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Qinghai, ospedale da campo, bambina che viene curata

Hai dei ricordi avventurosi legati alla tua professione?
Non ho mai fatto reportage di guerra ma ho vissuto diverse situazioni in cui ho rischiato qualcosa. Di solito tendo a dimenticare questi eventi, ma non posso dimenticare di quando sono scivolato nello Yangtze, con tutta la mia apparecchiatura e sono stato salvato da un salvagente tiratomi da un cinese, che per fortuna era nei paraggi….

Ti sei mai imbattuto in delle difficoltà nel portare a termine un progetto?

E’ sempre difficile portare a termine un progetto, specialmente i miei progetti personali ai quali tengo in particolar modo. Per me non dovrebbero mai terminare, c’è sempre qualcosa da aggiungere e sempre qualcosa da togliere, è un libro aperto …

Com’è stato il tuo primo impatto con la Cina?
E’ stato un impatto forte anche perché venivo dall’Australia, (dove vivevo prima) il clima e la densità di popolazione di Shanghai non mi hanno fatto capire molto per la prima settimana … ma poi la Cina si scopre giorno per giorno, le migliaia di storie, le tante strade e la consapevolezza di una vitalità che rende la città, come il resto della Cina, un paese con tanti input difficili da governare.

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Shanghai, due donne che entrano la famosa Ballroom del Paramount hotel

Da quanti anni lavori in Cina?
Sono arrivato in Cina da professionista. Ero stato in Cina nel 1990 viaggiando con la transiberiana ma ai quei tempi ero solo un appassionato di fotografia. Vi sono ritornato nel 2000, da allora ho fatto molti reportage e nel 2005 sono venuto a viverci definitivamente.

Quali sono le differenze più evidenti che vedi oggi, cosa è cambiato dal tuo primo ritratto di Cina?
Le differenze sono strutturali, un paese in piena metamorfosi, skylines che si rifanno il trucco, vecchie case abbattute, un paese che vive di entropia propria e che riaggiusta i propri parametri di vita attraverso un dinamismo fuori dal comune. I cinesi sono più ricchi da 10 anni a questa parte ma anche più poveri se si va nelle campagne. Nonostante ciò il pensare e l’agire cinese non é cambiato. Cambiano appunto le strutture ma resta comunque una mentalità che agglomera il nuovo creato e partorisce una continuità di pensiero che è dura da scardinare. E’ come indossare una ricchezza materiale.

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Dal tuo punto di vista, in Cina c’è qualcosa di diverso che non si trova in altri paesi?
La Cina ha sicuramente dei metodi unici di pensiero, di logica. Penso che sia un paese che sia cresciuto senza un’etica spirituale che ha contribuito ad alimentare la corsa al materialismo che, nonostante sia diversa da quella occidentale, ha caratteristiche che hanno modellato il modo di vita cinese. Il grande numero di abitanti rende queste caratteristiche ancora più marcate visto la grande competitività che esiste tra di loro.
Altra cosa che differenzia la Cina da altri paesi è il continuo rispetto di classe che esiste: un paese dove il povero rispetta il potente e dove il potente disprezza il povero.

Cosa raccontano le tue foto della nuova Cina ?
Non so cosa raccontano, forse la dinamicità e la vivacità tradotta in movimento e colori forti, sicuramente il mio non è un buon esempio di fotogiornalismo o perlomeno quello che tutte le riviste del mondo vorrebbero vedere della Cina. Ho avuto pure diversi approcci, il mio lavoro su Shanghai è più che altro un approccio grafico e quasi divertente, ho voluto cogliere le contraddizioni di questa città mentre nei miei ultimi lavori cerco di entrare nella vita della gente perché dopo 5 anni devo assolutamente andare oltre alla facciata e capire di più. In generale non mi importa tanto di dover raccontare ciò che la gente vorrebbe avere raccontato, io cerco di capire e crescere in questo paese.

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Com’è stata la tua esperienza al Pingyao International Photo Festival ?
E’ stata una bella esperienza, sono solito andare a festival come quello di Perpignan in Francia dove si radunano i più grandi fotogiornalisti, dove è possibile vedere i limiti del fotogiornalismo, gente che va a coprire una guerra per poter avere un premio o per avere una mostra ed essere riconosciuto globalmente e fare brindisi in qualche bar alla moda. Pingyao ha un’atmosfera più vera e più diretta, la cosa più bella è stata il giorno dell’apertura, era pieno di gente del luogo, persone semplici, abituate a lavorare nei campi e che venivano a guardare le tante fotografia esposte, come ad un happening fatto apposta per loro. Questo è molto meglio di vedere grandi fotogiornalisti brindare su mostre ove viene impressa la morte di civili o sofferenze altrui …

L’era contemporanea è per lo più rappresentata dalla fotografia in digitale, usi anche la pellicola ?

Per i miei progetti personali sono tornato ad usare la pellicola, penso che sia una questione di dettaglio ma anche di migliore approccio, usando la pellicola solo forzato a pensare e creare una foto prima di scattarla, la fotografia è un atto che si va fatto usando tutta la cultura e la sensibilità di cui siamo disposti, è meditazione, carpire un certo sentimento piuttosto che, come fanno molti con la digitale, scattare a ripetizione senza pensare e credere che sia una questione matematica (più scatti e più probabilità di successo).

Quale pensi sia il ruolo della fotografia nella nuova era della comunicazione globale?

Penso che la fotografia si sia evoluta, il fotogiornalismo classico oramai non riesce più a suscitare sentimenti, non riesce più a raccontare a muovere le coscienze, siamo assuefatti a questo tipo di messaggio. Molti lettori di riviste non riescono più a pensare dietro ad una foto di reportage classico. Il punto fondamentale è proprio riuscir a fare ragionare la gente e non bombardarla con quello che si aspettano di vedere. Ci sono molti fotografi che attraverso una propria soggettività e usando concetti riescono a dire di più. Gente come Nadav Kandar o Simon Norfolk hanno il potere di coniugare una forma diversa che fa pensare e dire le stesse cose più che 10000 foto di guerra o di morti di Aids.

Secondo te, qual’è la dote principale che deve avere un buon fotografo ?

Un fotografo deve avere curiosità e comunque senso estetico, capire dove sia il soggetto e farlo uscire fuori da qualsiasi sfondo. I migliori fotografi sono quelli che sanno sfruttare e rendere vivi i vuoti della realtà, quelli che vedono cose che altri non vedono.

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