Identità “fasciate”

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identitaIo sono lesbica”, comunica risolutamente la protagonista di Hutie ad un addolorato (ma non troppo stupito) marito.

Se il cinema hongkonghese dell’ultimo decennio, sia mainstream che New Queer Cinema, ci ha già mostrato storie lesbiche di vario tipo, dal nostalgico al soft-core (e una anche la Cina Popolare: Fish and Elephant, di Li Yu, passato a Venezia nel 2001), questa è la prima volta che all’identità lesbica viene data una formulazione vocale così chiara e al tempo stesso così pacata. Con Hutie siamo lontani anni luce dalla nostalgia coloniale e flou di The Intimates (Zhishu), di Jacob Cheung (HK, 1997) dove l’omoerotismo è sublimato nell’atto del pettinarsi a vicenda. O dal soft-core proto-lesbico di Intimate Confessions of a Chinese Courtesan (Ai Nu, 1972), di Chu Yuan Chor Yuen). O dalla marginalità sociale delle protagoniste di Ho Yuk: Let’s Love Hong Kong (Yau Ching, HK, 2002), il primo lungometraggio lesbico di Hong Kong diretto da una donna. E siamo ugualmente lontani dal comodo postulato di una bisessualità tradizionale cinese, che solo la colonizzazione culturale occidentale avrebbe costretto nelle gabbie dell’omosessualità e dell’eterosessualità (vedi l’insistenza sul gioco dei ruoli e la commedia en travesti assai frequente nel cinema di HK, ad es. Wu Yen, 2001, di Johnnie To e Wai Kai-fai). Hutie è la storia di un coming out, nel senso di una pubblica affermazione della propria identità sessuale, non della presa di coscienza della stessa. Le protagoniste di Hutie sono donne cinesi (potremmo addirittura dire generazioni di donne: l’insegnante, le allieve) che amano altre donne, senza grandi incertezze e senza problemi più grandi o più dolorosi di quelli che devono affrontare donne di molte culture non-cinesi in analoghe situazioni. Il discorso sul peso della tradizione, la società patriarcale, la ‘fasciatura dei piedi’ (più o meno metaforica), il ruolo della donna nella società confuciana, e tutti gli altri parametri di rapida obsolescenza che siamo soliti applicare nella lettura di una società in costante ed accelerata evoluzione come quella cinese, non attraversano la visione contemporanea di Yan Yan Mak. Le sue protagoniste si muovono in uno spazio che non è più ‘cinese’ di qualunque ambiente borghese di qualsiasi società industrializzata; i maschi, padri e mariti, non sono più ‘padroni’ o prevaricatori di qualsiasi altro maschio in qualsiasi altra società avanzata; la famiglia ‘tradizionale’ cinese non è affatto compatta ed austera, ma si rinfaccia le sue storie di corna senza troppi ritegni. Yan Yan Mak, come d’abitudine, depura la sua materia da ogni sospetto di orientalismo ed esotismo, di ‘lanterna rossa’, di ‘addio mia concubina’, per concentrarsi sulle relazioni amorose, sui corpi e sui desideri, e sull’esplicitazione degli stessi. Laddove i film lesbici precedenti giocavano ancora con la metafora, il non-detto, la dissolvenza (ed una certa titillazione delle fantasie maschili), Yan Yan Mak mostra (con la cruda nostalgia dello home video), e soprattutto dice, o fa dire. La reiterata espressione del desiderio e dell’amore fra due donne (Ti amo, non posso vivere senza di te) fa uscire la relazione lesbica dal silenzio, dall’invisibilità o dalla letteratura erotica per maschi: il melodramma diventa un atto politico. Ma qui il coming out stesso, la crisalide che diventa farfalla, assume ulteriori connotazioni metaforiche. Rispetto ad una Cina Popolare che rappresenta l’omologazione, l’ortodossia, il modello unico, ovvero l’ideologia eteronormativa, Hong Kong è l’altro, il diverso, la minoranza, la queerness. Ovvero un immenso queerscape, per usare il termine di Gordon Brent Ingram. E anche dopo il ‘matrimonio per forza’ rappresentato dallo handover, Hong Kong mantiene una proprio identità, un’anima segreta, un bisogno/tentazione di spezzare la crisalide, di (ri)sbocciare. La relazione giovanile della protagonista si consuma al tempo dei moti di Piazza Tian’anmen, quando il ricongiungimento di Hong Kong con la ‘madrepatria’ era ancora da venire, ma i rischi erano già evidenti sui teleschermi di tutto il mondo. Jin, l’amante, è già out, politicamente impegnata, sessualmente intraprendente, inquieta, troppo avanti per i tempi, di certo troppo avanti per Flavia. I carri armati che entrano in Piazza Tian’anmen distruggono le illusioni di Jin, mentre Flavia cede alle pressioni della famiglia. Handover. Matrimonio. Una figlia. Una vita borghese e confortevole nella Hong Kong del dopo handover, in cui l’immutato benessere dona l’illusione che nulla sia cambiato. Un senso di colpa per aver abbandonato l’amante (che si è fatta monaca buddista. E’ pur sempre un melò, è pur sempre Hong Kong!), e mani lavate in continuazione (è il gesto che si ripete più volte nel film). E quando la passione ritorna, nella persona di una decisa, seducente e disincantata ragazza, è una passione matura, che implica scelte dolorose, ma consapevoli e necessarie. Gege (Brother) era il viaggio infruttuoso alla ricerca del fratello maggiore scomparso, di una Cina che si nega, muta ed elusiva, di una identità mancata. Hutie è la fine del viaggio, l’arrivo, l’identità acquisita e affermata. Identità sessuale, per ora. Ma domani forse politica o nazionale. (

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