Toccare il limite e superarlo – intervista a Yang Lian

“Io analizzo il modo in cui la lingua esplora i meandri più reconditi dell’esistenza umana, essa deve essere fredda e violenta, intensa ed audace, talvolta crudele e senza scrupoli”.

di Sabrina Merolla

Così Yang Lian descrive il poeta, un uomo posseduto dal demone dell’arte, quotidianamente impegnato nel corpo a corpo con una lingua che tenta di piegare alle proprie esigenze creative. Nato a Berna (1955) e cresciuto a Pechino, durante la Rivoluzione Culturale Yang è un giovane istruito mandato in campagna (1974-76). Di ritorno nella capitale entra nel gruppo di Jintian (Oggi), la rivista non-ufficiale che durante il Movimento Democratico (1978-79) rivendica una democrazia intellettuale in Cina e promuove quella poesia oscura (dal simbolismo estremamente soggettivo) che rivoluzionerà l’arte poetica cinese. Negli anni ‘80 è annoverato tra i 100 poeti cinesi più amati. Compie frequenti viaggi in Cina ed all’estero, è bersagliato dalle critiche governative (1983). Durante i fatti di Tiananmen (1989) si trova in Nuova Zelanda: da allora, fino al 1997, è bandito dal territorio cinese. Oggi le sue opere sono nuovamente pubblicate nella R.P.C. e Yang, che può vantare un Premio Flaiano (1999) ed una candidatura al Premio Nobel (2002), è annoverato tra i grandi nomi internazionali del post-modernismo.
L’esilio intellettuale di Yang Lian –un incessante vagare per i quattro continenti– oggi è un modello di vita che valorizza il pensiero libero, non in quanto libero di pensare ma in quanto sradicato, prodotto da una vita all’insegna della liminarità. Tuttavia per il poeta essere al margine non vuol dire rimanere in equilibrio tra due mondi ma varcare il confine, scrutare tutto ciò che è dato di vedere: “esilio significa toccare il limite e superarlo”.

Yang Lian in Italia ha pubblicato: Dove si ferma il mare (Sheiwiller-Playon, 2004) e Il pane dell’esilio (Gao Xingjian e Yang Lian, Medusa, 2001).

Lei è stato un rappresentante della poesia menglong (oscura), prima significativa manifestazione della poesia cinese contemporanea. Potrebbe descriverci quegli anni?

La poesia menglong fu uno dei primi fenomeni poetici dal 1949. Fu la prima volta che la poesia si allontanò dalla propaganda politica per tornare ad essere qualcosa di personale: l’espressione di sé in un linguaggio individuale. Quando iniziai a scrivere mi trovavo in campagna [1974-76] e credevo che la vita dolorosa che stavo vivendo fosse solo una mia esperienza personale. Compresi che la mia tragedia era stata, invece, soltanto una minima parte dell’immensa tragedia del popolo cinese dopo essere tornato a Pechino, specialmente quando iniziò il Movimento Democratico (1978) e la gente cominciò ad arrivare nella capitale da tutto il paese, per lamentarsi delle terribili esperienze vissute durante la Rivoluzione Culturale. D’improvviso la voce rabbiosa del popolo si riversò per le strade di Pechino. Tra loro vi erano anche altri giovani poeti: Bei Dao, Mang Ke, Gu Cheng. Fu la prima volta che mi resi conto che ciò che avevo vissuto e ciò che stavo tentando di fare era condiviso da tante persone. Da allora sento che la mia poesia non esprime solo me stesso ma anche un’intera tradizione, un’intera storia, un popolo ferito.
Sul piano linguistico per me è chiaro il motivo per cui fummo definiti poeti oscuri: perché tentavamo di utilizzare un nostro linguaggio del tutto personale, ma ciò significava usare parole vere e, in questa prospettiva, termini politici altisonanti come socialismo, capitalismo, materialismo, per noi erano concetti vuoti. Il periodo menglong è stato un grande inizio: da allora abbiamo cominciato a mettere in discussione noi stessi e la nostra scrittura. Ma la questione era più complessa, perché la poesia menglong si basò anche sulla domanda: Quali sono state le ragioni del disastro della Rivoluzione Culturale? Ebbene, quando usi eroicamente la tua poesia contro il governo, ti schieri in opposizione al potere ufficiale. Tuttavia, se approfondisci le tue riflessioni, non puoi non chiederti: Come ha potuto un piccolo gruppo di leader comunisti trasformare milioni di persone in vittime? Che ruolo hai giocato tu stesso nella catastrofe? Avendo svolto una riflessione non solo politica, ma anche storica e culturale, posso dichiarare che io stesso non fui solo un’opposizione.

Lei fu parte…

Si, parte dei carnefici, tutti lo siamo stati. Probabilmente non ce ne rendevamo conto, ma siamo stati tra le cause della Rivoluzione Culturale, non solo le sue vittime. Perciò per me il caso cinese non sarà mai solo un caso politico ma sempre una questione culturale. In questo senso, ripensando alla poesia oscura, sento che era ancora ingenua, ma in fondo fu solo un inizio.

Negli anni ‘80 lei ha molto viaggiato nel suo paese, alla scoperta di popolazioni e tradizioni dimenticate. Oggi che può finalmente ritornare nella R.P.C., compie ancora quel genere di viaggi in Cina?

Per me il viaggio ha avuto tre dimensioni. Inizialmente, tra la fine degli anni ‘70 e gli anni ‘80, quando tutte quelle persone giunsero a Pechino, viaggiare significò: “Non aspetterò che siano loro a venire da me, sarò io ad andare da loro”. Andai a vedere qual era la vita reale in Cina e quest’esperienza diede una straordinaria energia alla mia scrittura. In una seconda prospettiva, dato che sono cresciuto a Pechino, dove l’assetto socio-politico era molto rigido, sentivo il bisogno di nuove energie per rompere con quei controlli e volli trarle direttamente dalla natura e dalle culture delle zone più remote, non ancora corrotte dalla politica, come il Tibet, la Mongolia, il Sichuan. Ad un terzo livello, tutte quelle scoperte furono un ritorno a me stesso. Intendo dire che quelle distanze furono distanze interiori, tutti quei viaggi furono dei viaggi interiori che resero il mio mondo letterario e spirituale più grande e più ricco. Oggi ritengo che, in fondo, la vita d’esilio che mi ha portato in tanti altri paesi non si sia rivelata diversa da quei primi viaggi. Anche se è stata un’esperienza sicuramente più difficile -perché non avevo una lingua né mezzi di sostentamento e la vita era molto triste- posso affermare che dal 1989 ho continuato quel viaggio interiore. Ora certo, posso tornare in Cina, ma la Cina è cambiata così tanto! Perciò non ho più ripetuto quei viaggi.

All’inizio degli anni ‘90 lei ha vissuto un periodo doloroso legato agli eventi di Tiananmen ed al suo esilio, in cui ha scritto solo poesie brevi e sanwen (prose sparse). Perchè?

Se non fosse stato per Tiananmen, la mia scrittura avrebbe continuato ad avere un’evoluzione armonica. La prosa è stata un fenomeno del tutto nuovo per me, un nuovo inizio. Procediamo dal principio: ci fu una conferenza in Svezia (1990), in cui tutti gli scrittori cinesi in esilio si sarebbero dovuti incontrare –volevamo ridar vita a Jintian. Mi fu richiesto un saggio sull’esilio. Io pensai: “Certo, è un’esperienza molto dolorosa, ma qual è la differenza tra un esule cinese e gli altri scrittori in esilio?” Pensai che in fondo l’esilio è un’esperienza comune ad ogni buono scrittore. Se sei uno scrittore, sei in esilio. E se non sei costretto ad abbandonare il tuo paese, devi comunque accogliere la tua scrittura mettendo da parte i successi, i lettori, il mercato, onde creare una nuova distanza: creare il tuo esilio. Perciò l’esilio può anche essere qualcosa di attivo e creativo. Penso che l’esilio non esista solo nella realtà tangibile ma anche nella lingua. Esilio vuol dire superare i limiti della lingua, toccare il limite e superarlo. Per questo decisi di non scrivere un saggio ma un sanwen. Il sanwen ha un’antica tradizione in Cina, come la poesia, ma è sempre stato una forma del tutto individuale. In esso puoi comporre in diversi strati tutto il tuo materiale autobiografico. Puoi dipingere, scrivere, comporre versi, ragionare filosoficamente, e tutto questo materiale deve essere tenuto insieme da una ragione letteraria, diventare un unico brano di pura scrittura creativa. Per questo scrissi un sanwen, per la sua stessa forma; questa forma è essa stessa un esilio e mostra il mio esilio spirituale nella lingua.

Lei ha scritto un sanwen intitolato Il libro del pianto e dell’oblio, in cui paragona la propria visione dell’oblio con le idee espresse da Milan Kundera ne Il libro del riso e dell’oblio. Perché afferma che è il pianto ad indurre l’oblio?

Dopo il massacro di Tiananmen vidi tutte quelle persone piangere sorprese e scioccate dalle uccisioni e le comprendevo, ma per me un fatto ancor più scioccante fu l’oblio. Dov’erano tutti i morti che c’erano stati prima di Tiananmen? Come poteva la gente essere così sconvolta solo perché delle persone ne uccidevano altre davanti alle telecamere? Perché era quella l’unica differenza! Perciò scrissi 1989, che terminava col verso “questo è solo un anno qualsiasi”. Perché per me Tiananmen non è un evento ma una situazione, Tiananmen non è mai trascorsa, è sempre qui, ora…ma il pianto può farlo dimenticare, perché le lacrime lavano via i ricordi. È stato perché hanno dimenticato tutti i morti precedenti che hanno pianto nel 1989, e poiché hanno pianto così tanto nel 1989 questo pianto li sta preparando al prossimo oblio, in modo da farli piangere ancora. Questo è un terribile circolo – piangere e dimenticare– vuol dire che nulla rimarrà nella storia umana.

“Io non vengo da nessun luogo, non mi trovo in nessun luogo”. É questa l’essenza dell’esilio?

Questo è il tipico atteggiamento lacrimoso dell’esule. All’inizio mi sono trovato anch’io in questa condizione, ma bisogna porsi su un altro livello: io sono ovunque, includo ogni luogo, non mi preoccupo del luogo. Questo atteggiamento lacrimoso è sempre dipeso da quel io devo avere un’identità, devo appartenere ad un luogo, che non mi è mai piaciuto. Io penso che dovremmo ricostruire noi stessi, trasformare gli eventi negativi in qualcosa di positivo. Le situazioni terribili non ti lasciano voltare la faccia, perciò l’esilio è una grande prova. Per me esilio vuol dire rompere i limiti di ogni luogo e portarli in se stessi. Una volta superati quei limiti ti trovi d’improvviso su un altro piano. Io ora posso osservare il mondo, incluso me stesso, da un’altra prospettiva, come un Buddha: non c’è più differenza tra l’essere in Cina o fuori dalla Cina, tra gli altri e me stesso, un’altra lingua e la mia lingua.

Lei ha scritto: “Noi possiamo solo guardare da lontano”. L’esilio come ha modificato il suo rapporto con la lingua cinese?

Ho compreso la lingua cinese più profondamente da quando sono andato via dalla R.P.C. –soprattutto da quando ho imparato altre lingue. Questa conoscenza comparativa mi ha fatto anche comprendere meglio delle cose che avevo scritto prima di lasciare la Cina. Perciò, vedi, questo sguardo da lontano è fondamentale per raggiungere la consapevolezza ed una prospettiva internazionale sul mondo.

Come gestisce la lingua cinese in un contesto diverso?

Tra la lingua e il poeta non c’è un rapporto fisso. Se credi di avere qualcosa di speciale da dire, in realtà stai già facendo delle richieste alla lingua. A volte la lingua può modificarsi, e spesso accade quando utilizzi una struttura che possa ricostruirla. Se vuoi che la lingua superi i suoi limiti devi essere sperimentale.

Lei oggi afferma di essere un poeta internazionale. Che significa?

L’internazionale è per me un concetto problematico a causa della lingua cinese, che gioca ancora un ruolo fondamentale nella mia individualità. Eppure vorrei portare degli elementi interessanti all’attenzione del mondo, ho la speranza che le esperienze possano essere condivise internazionalmente, ma questo deve basarsi su un lavoro molto individuale.
Quando sento parlare della Cina sembra sempre che si parli di quel paese lontano ancora sotto il comunismo, ma quest’atteggiamento non è tentare di trovare un punto d’incontro perché, realisticamente, le cose non stanno così. È vero, la Cina ha un’economia molto vivace nelle città, mentre nelle zone rurali 900 milioni di contadini vivono in condizioni terribili. Conosco il governo cinese e non me ne stupisco. Ma cosa dire delle compagnie occidentali che hanno ingenti investimenti nella R.P.C.? Cosa dire dei governi occidentali (ora in Iraq sotto il marchio diritti umani) che corrono a stringere le mani insanguinate del governo per proteggere i propri interessi? Quest’incredibile situazione dipende anche da loro. Quindi il problema non è solo il sistema autocratico cinese, ma se qui nelle democrazie occidentali i governi possano mantenere un doppio standard e, se la risposta è si, che fine abbiano fatto i principi fondamentali del sistema democratico. Perché se rispondiamo che non esiste principio fisso, vuol dire che oggi il sistema democratico occidentale sta diventando una dittatura.

Questa è la grande contraddizione…

Certo, ma è questo il nostro reale punto d’incontro! Questa è la situazione senza speranza in cui ci troviamo noi tutti. Oggi internazionale vuol dire che dobbiamo iniziare a lavorare da qui.

Non ha mai pensato di tornare a vivere in Cina?

La mia esperienza è molto complessa. La prima volta che ritornai in Cina fu molto emozionante. Presi un treno da Guanzhou a Pechino e di notte, mentre traballava, pensavo: “Questi balzi vengono dalla terra cinese!” Fu commovente. D’altro canto, nonostante la Cina sia cambiata, i limiti politici sono sempre lì. Tanti miei amici hanno abbandonato la scrittura, le ultime generazioni sono forgiate sul modello americano, il che va bene, è il loro stile di vita. Il problema sta nella struttura della cultura: il governo ha divulgato un atteggiamento molto cinico perciò, mentre in occidente ho tanti amici che, come te, riflettono seriamente, sembra che la gente in Cina desideri solo una vita materiale ricca, ma non completa dal punto di vista spirituale.

Questo è un problema che abbiamo anche qui.

Certo, ma la struttura della cultura in occidente è ancora completata dalla critica, dal mondo accademico, da un pubblico serio. La situazione cinese invece non deriva dalla tradizione ma dal governo, dalla volontà di distruggere qualunque resistenza, ma anche dalla sua sicurezza: il governo -sostenuto dai paesi occidentali- crede che se riuscirà a proteggere il potere potrà vincere la propria battaglia in Cina e sul piano internazionale. Ecco perché il popolo cinese non vede speranza. Perciò non sono tornato a vivere in Cina, perché so che dovrei avere a che fare con questa situazione. Per questo devo ancora ritenermi un esule.
Comunque non credo che il popolo cinese sia diventato del tutto cinico, perciò spingo per un cambiamento. Tutte le culture devono avere un livello di letteratura seria, poiché l’energia della lingua è l’energia della cultura. La Cina possiede una tale storia che non c’è ragione per cui non debba sentire il bisogno di questa energia. In realtà io ora vorrei ricostruire me stesso come uno strato­ lontano, ma più profondo, della cultura cinese.

* Questa conversazione è stata registrata al Russel Hotel di Londra il 24 giugno 2004. L’intervista, protrattasi per quasi tre ore e mai pubblicata, è qui presentata in una versione molto ridotta che ha il consenso dell’autore.

[Pubblicata su ALIAS– IL MANIFESTO il 19/02/2005]

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