I grandi pensatori cinesi del III e IV secolo d.C.: Wang Bi, Guo Xiang

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La disfatta della Dinastia Han dà luogo ad un periodo di ben quattro secoli, dove l’impero vede il passaggio di testimone a diverse figure di uomini forti: il generale Cao Cao (曹操, 155-220); il figlio Cao Pi (曹丕, 187-226), il quale fonda la dinastia Wei (220-265), nella quale si dibattono i clan Cao e Sima; da questi ultimi viene istituita la Dinastia Jin (265-420).

In questo contesto storico di passaggio del potere a personaggi differenti tra loro, delusione e necessità di nuovi credi, il dibattito filosofico intellettuale in Cina si predispone a lasciare un varco nel quale il pensiero buddhista inizierà a farsi strada lentamente e solidamente.

Gli Han hanno ereditato l’etica confuciana della dottrina dei nomi (mingjiao), che prevede il fatto di farsi una reputazione e ascendere socialmente tramite la pietà filiale.

Per questo per questa Dinastia una preoccupazione fondamentale è data sia dal nome che indica una reputazione, ma anche dal fatto che i nomi debbano essere adeguati alla realtà, perciò le competenze alle funzioni e le corrispondenze che possono sorgere tra natura originaria (xing), capacità o talenti innati (cai).

Zhong Hui (鍾會, 225-264) tratta nel suo saggio sui “Quattro Fondamenti” (Siben lun) proprio a riguardo della possibilità dei suddetti rapporti, come pure Liu Shao (180-240) nel “Trattato sui caratteri”.

La distruzione dell’impero Han porta un sempre più grande numero di intellettuali in Cina a prendere delle distanze dalla dottrina dei nomi e dal moralismo confuciano.

Wang Chong si erge a portavoce di questa nuova sensazione di fastidio, scrivendo il saggio “Liberarsi dell’io”.

Inizia così da parte dei letterati un sempre più forte disinteresse per la politica che tocca i suoi apici sotto le Dinastie Wei e Jin. Vengono infatti favoriti i discorsi puri (qingyi).

La nuova raccolta di discorsi mondani” (Shishuo xinyu) è un’opera dell’epoca che attesta la fortuna di queste discussioni.

L’atteggiamento che si consolida, profondamente sprezzante nei confronti dei riti, sfocia in atti che per la filosofia confuciana sono offensivi.

Lo studio del mistero porta Wei Boyang, nel “La triplice conformità secondo il classico dei mutamenti” (Zhouyi cantongqi), a parlare della fabbricazione della pillola dell’immortalità, attraverso la lavorazione del cinabro.

Il procedimento alchemico avviene tramite la simbologia dei trigrammi e degli esagrammi associati ai segni ciclici e ai movimenti del sole e della luna. Un’altra figura influenzata dai maghi e dal taoismo è Ge Hong (283-343), autore de “Il maestro che abbraccia la semplicità” (Baopuzi).

E’ importantissimo per quest’epoca accostarsi e studiare il mistero (xuanxue), così Wang Bi e He Yan diventano le figure più importanti che intraprendono la riflessione sui rapporti tra la realtà manifesta (you) ed il fondo indifferenziato (wu) per comprendere il fondamento costitutivo dell’originario (benti).

Wang Bi

Wang Bi (王弼, 226-249), considerato un genio precoce, poiché in tenera età intraprende la lettura del “Laozi” e del “Zhuangzi”, testimonia il turbamento che affligge anche altri sui contemporanei nei commenti al “Laozi”, al “Classico dei Mutamenti” e ai “Dialoghi” di Confucio. Molto presto partecipa anche ai discorsi puri presso la corte della Dinastia Wei, sotto la super visione e protezione di He Yan (190-249).

Wang Bi vede la natura del Santo al di sopra della posizione degli uomini comuni, poiché egli è custode della divina chiaroveggenza e possiede una natura umana che lo porta ad interagire perfettamente con il mondo. Un’unità della totalità dell’universo è l’immagine che emerge dal suo pensiero filosofico, perciò vi è un unico fondo di provenienza per tutta la molteplicità degli esseri.

Ciò che non c’è è complementare a quello che c’è perché vi è un rapporto fra il fondamento costitutivo (ti) e la sua messa in opera (yong).

Wang Bi riprende un’immagine metaforica comune per tutto il pensiero cinese classico per ribadire la distinzione tra essenziale e necessario: sostiene infatti che uno stesso rapporto intercorre fra la radice (ben) che rappresenta l’aspetto primordiale, ed i rami (mo) i quali sono la molteplicità.

Il molteplice che rientra nell’Uno o Culmine supremo (taiji) è il non c’è (wu).

Wang Bi opera una fusione completa tra Uno, Dao e wu.

Dao è così importante e centro di tutto che finisce per appropriarsi di ogni cosa, incorporando le altre nozioni.

Il Dao, l’assoluto, non è coglibile, dicibile o determinabile tramite nessuna definizione del linguaggio, l’unico modo possibile è indicarlo come indifferenziato in modalità a ritroso (fan).

Il paradosso del linguaggio consiste nel dire un qualcosa rinviando ad un’altra cosa, perciò non parlare, tacere per Wang Bi non indicano una negatività, ma sono visti come un oltre la parola, poiché indicano tutto ciò che non è possibile delimitare tramite il discorso.

La realtà è indicibile e quindi i nomi sono semplici veicoli che non trasportano ne danno la possibilità di comprendere ciò che dovrebbero designare.

Wang Bi ritiene necessaria una allora ripartizione in tre livelli di rapporti che si possono creare, per dare la possibilità di accedere al senso più profondo tramite i nomi e le forme, passando tramite le figure ed immagini. Il primo è quello delle sentenze legate agli esagrammi, delle parole o del discorso (yan); il successivo è il livello delle figure esagrammatiche o immagini (xiang); l’ultimo è invece quello del significato degli esagrammi e del senso (yi).

Tutto ciò permette di giungere all’unita originaria, infatti questo percorso a ritroso verso la radice garantisce di poter arrivare a cogliere il significato lasciato dai saggi, il quale è celato nel cuore stesso del discorso.

Il Dao può essere accostato per mezzo di un ritorno che parte dal linguaggio ma si esplica nell’oblio del linguaggio.

Il Dao rappresenta un’unità fondamentale, è ineffabile ed innominabile, ma poiché è costante contiene un principio di intelligibilità percepibile dal saggio.

Questo principio di intelligibilità è detto LI supremo ed è ciò per cui ogni cosa è così (suoyiran) e determina quindi un ordine all’interno di ogni essere e di ogni cosa. Il Dao assenza di ogni determinazione è pero percepibile nel mondo in quanto principio strutturante.

Guo Xiang

Un altro filosofo cinese molto importante è Guo Xiang (郭象, 252-312), il quale si mette in luce per il suo pensiero mistico, dove ogni individuo e le cose non derivano da un’unica fonte, ma da loro stessi e tramite delle relazioni determinano la loro esistenza.

Egli decide di svuotare l’indifferenziato (wu) da ogni sostanza designandolo semplicemente come contrario del c’è (you).

Guo Xiang pone a fulcro del suo pensare l’idea della mancanza di un principio esplicativo (suoyiran), poiché ogni essere si crea da solo (zizao) e si genera da sé (zisheng). Così facendo egli prende in considerazione un principio spontaneo d’essere e d’azione.

La percezione filosofica che ha del Dao è quella di un nome attribuito alla spontaneità degli esseri, poiché ogni cosa nasce all’improvviso da sé. Questa autocreazione implica il destino ricevuto in sorte (fenming), inevitabile ed imposto, che possiede sia un aspetto universale e sia uno personale.

Il fluire spontaneo e costantemente rinnovato dell’energia vitale (qi) è garantito dalla fusione misteriosa dei propri limiti e del proprio destino.

LI è in tal senso designatore di spontaneità ed autoregolazione nell’autocreazione.

Questo valore di LI applicato nelle relazioni socio politiche, poiché tutto è allo stesso livello, raggiunge la perfezione nel lasciar agire le diverse figure gerarchiche, le quali sono esse stesse parte dell’ordine naturale.

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