Intervista a Yan Yan Mak

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A cura di Marco Ceresa
dal Catalogo 16. SETTIMANA INTERNAZIONALE DELLA CRITICA DI VENEZIA a cura di Nicoletta Romeo e Giuseppe Ghigi
Editrice Il Castoro

2001

Yan Yan Mak è una voce al telefono, che si esprime un po’ in inglese e un po’ in mandarino. Un mandarino fortemente accentato, come quello del protagonista del suo film, da ventottenne hongkonghese cresciuta a ridosso del “Fratello Maggiore”, senza avergli mai davvero parlato. Ci chiediamo se il mandarino sia a nostro benefìcio (dato che non capiamo il cantonese), o se ormai non abbia scalzato il nativo dialetto e sia diventato l’unico veicolo linguistico della sua “cinesità” ufficiale.

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L’accusa che più frequentemente è mossa ai cineasti cinesi più celebri è quella di fare film “esotici” o “orientalistici “‘formato export. Jia Zhangke, secondo te, ha girato un film destinato ai cinesi della Repubblica Popolare Cinese e Yan Yan Mak per chi ha fatto il suo film?

Per i giovani cinesi di Hong Kong. Questo era il mio obiettivo, non mi aspettavo tutto il clamore internazionale che ne sarebbe seguito. È stato un bonus extra.

L’intera vicenda del film prende l’avvio da una cartolina imbucata tre anni prima. Se il film è del 2000, la cartolina dovrebbe essere stata inviata nel 1997, cioè l’anno dello handover, la restituzione di Hong Kong al suo Grande Fratello, o è solo una coincidenza?

Te ne sei accorto! Si è la data dello handover e non è una coincidenza. Nel 1997 ho compiuto il mio primo viaggio nel Qinghai. A quel tempo studiavo ancora alla Scuola di cinema e, durante le vacanze, insegnavo ai ragazzi delle scuole secondarie. Con un gruppo di questi ragazzi mi sono recata nel Qinghai, con lo scopo di mostrare ai ragazzi quella parte della Cina a loro del tutto sconosciuta e di fare qualcosa di significativo per la gente del luogo. E stata un’esperienza sconvolgente: il Qinghai era assolutamente diverso dalla Cina “hongkonghese”, non avevamo mai visto niente del genere. E tuttavia c’era un legame fra noi e loro. Da qui è nata l’idea del film.

Quali sono state le principali difficoltà nella realizzazione?

Ci sono state tonnellate di difficoltà. Dalla mancanza di finanziamenti alla difficoltà di mettere insieme la troupe, fare il casting, eccetera. Siamo partiti con un finanziamento di 420.000 HK$ concesso dallo Hong Kong Arts Development Council, una somma piuttosto esigua, e la mancanza di soldi è stata un problema durante tutte le riprese. Parte della troupe non è ancora stata pagata. Per non parlare dei problemi fisici dovuti all’altitudine. Abbiamo girato delle scene a 4.000 metri d’altezza e qualcuna persino a 5.000 metri Uno della troupe è quasi morto. E poi abbiamo avuto difficoltà di comunicazione: il nostro mandarino, soprattutto all’inizio, era molto scadente. Tuttavia, sono riuscita a farmi capire. Gli hongkonghesi della mia età non hanno avuto un’educazione bilingue mandarino/cantonese come i ragazzi di adesso. Nel caso del protagonista del film, ho insistito che mantenesse il suo accento cantonese anche quando parlava mandarino, senza cercare di ripulirlo. Giravo con due troupe, una di Hong Kong e una locale, e anche fra queste c’erano costanti incomprensioni e attriti: sono partita con quindici persone e ho terminato con quattro. In realtà, fin dall’inizio, a Hong Kong, era stato diffìcile mettere insieme la troupe. Nessuno voleva finire in un posto come il Qinghai correndo dietro a una ragazzina pazza.

“A crazy girl” come tu stessa ti definisci: pazza perché? Perché hai voluto fare un film nel Qinghai in queste condizioni? O perché sei una donna cinese che vuoi fare film?

Perché volevo girare un film nel Qinghai senza soldi, senza mezzi, eccetera. Come donna con aspirazioni registiche non ho mai incontrato difficoltà a Hong Kong, almeno nell’ambiente del cinema indipendente. Certo, quando lavoravo nel cinema commerciale era diverso…

Parlami del casting.

Il protagonista e l’amico fotografo sono attori professionisti. La ragazza e tutti gli altri no. Il casting nel Qinghai è stato particolarmente diffìcile. La ragazza non è quella che avevamo scelto all’origine. All’inizio ne avevamo trovata una che faceva parte di una compagnia di canto e danza. Il capo-compagnia però voleva una grossa somma per lasciarla lavorare con noi, e io non potevo permettermelo. Inoltre sono sicura che, di tutti quei soldi, solo una minima parte sarebbe andata alla ragazza, quindi
abbiamo ripiegato su un’altra. Anche la colonna sonora, che per me è importantissima, è stata un problema. Volevo a tutti i costi delle canzoni del cantante Wang Lei, ma, come sempre, non potevo permettermelo. Allora l’ho incontrato e gli ho detto: «Non ho soldi, ma amo molto il tuo lavoro». E ho avuto le canzoni gratuitamente. Abbiamo fatto tutto il lavoro in una notte. Le sue canzoni, specialmente quella del finale, composta per l’occasione, sono importantissime perché racchiudono il significato del film.

Tu sei anche l’autrice della sceneggiatura. Quanto hai dovuto cambiare rispetto alla sceneggiatura originale?

Moltissimo. Abbiamo improvvisato molto. In ogni modo sono riuscita a girare un buon sessanta per cento di quello che intendevo filmare all’inizio delle riprese.

Problemi con la censura?

No, anzi. Per girare in Cina continentale si deve pagare un’enorme somma di denaro, che io non avevo. Quando ho telefonato agli studi cinematografici di Xi’an per chiedere aiuto sono stata fortunatissima. Ho trovato un produttore, una persona eccezionale, che ha fatto in modo che non dovessimo pagare questa somma, dato che la nostra era una produzione indipendente.

Il film comincia con un viaggio in treno. In sottofondo si sente il discorso, diffuso dagli altoparlanti, «Significato ed importanza della nazione cinese». Che senso ha questo discorso in treno diretto nel Qinghai nel 1997?

In realtà quando abbiamo girato questa scena in treno mentre l’altoparlante diffondeva il discorso, non ho veramente capito di cosa si trattasse. All’epoca il mio mandarino non era granché. In seguito, tornata a Hong Kong, ho fatto sentire il discorso a un mio amico, che me lo ha spiegato. Mi è sembrato un discorso di propaganda cosi vecchia maniera, così tipico della Cina anni Settanta, che ho deciso di tenerlo. È molto anacronistico, soprattutto nel Qinghai dove la maggioranza della popolazione è comunque cinese.

Nella scena in cui il protagonista parla con uno dei ragazzi che giocano a biliardo, c’è un bisticcio basato sulle espressioni «di Canton» e “della provincia di Guangdong”. Perché Ah Ming non ammette direttamente di essere hongkonghese?

Questo è un trucco di noi hongkonghesi quando andiamo nella Cina continentale. Tendiamo a dire di essere della provincia del Guangdong piuttosto che hongkonghesi (Hong Kong di fatto appartiene all’area geografica e culturale del Guangdong, la provincia in cui si trova Canton. Il dialetto parlato a Hong Kong e nel Guangdong è lo stesso). Così facendo possiamo passare per cinesi “popolari”. Ah Ming però non mentirà all’amico fotografo riguardo alla propria provenienza.

II tuo protagonista, hongkonghese, non si presenta, almeno all’apparenza, in modo molto diverso dai cinesi continentali, nonostante provenga dall’Eldorado dell’immaginario cinese “popolare”. Hai sperimentato differenze di trattamento o di aspettative nei tuoi confronti, per il fatto di essere la sorella ricca (o presunta tale)?

Assolutamente no, almeno fino a che non si rendevano conto che ero una regista e che ero lì per girare un film!

GeGe è un film sulla ricerca di un’identità nazionale?

No, non direi. È piuttosto una storia di vita. Si può addirittura dire sia la storia di me stessa e del mio girare film. Il protagonista, una volta cominciata la ricerca, non può fare altro che portarla a compimento. Una volta salito sul treno, non ne può più scendere sino alla destinazione finale. Fare film è come salire su un treno che non fa fermate intermedie. Devi arrivare a destinazione: non puoi più scendere, non puoi più smettere di andare avanti. Bisogna finire a tutti i costi.

Ma il tuo protagonista, una volta arrivato a destinazione e compiuta la sua ricerca, si rimette in cammino, sale su un altro treno. Verso dove? Secondo te, dove va? Ritoma a Hong Kong_

Forse, o forse no. È un finale aperto. Non è veramente importante quale sia la nuova destinazione. Va verso una nuova vita, verso un nuovo stile di vita.

II fratello è morto?

Per la cronaca, sì, ma è un dettaglio irrilevante ai fini dello svolgersi degli eventi successivi.

Brother di Yan Yan MakNel film appaiono dei tumuli di pietre. Nel finale, la ragazza aggiunge dei nuovi sassi a uno di essi. Inoltre, all’inizio del film, su uno dei tumuli c’è una chiazza rossa, come di sangue, e, poco distante, una pecora morta con un’identica chiazza. Sono simboli di morte?

I tumuli di pietre hanno una funzione votiva. Sono molto comuni nel Qinghai e in Tibet. Non si tratta né di sepolcri, né di simboli di morte. Sono una forma di preghiera: più alto è il tumulo e più facilmente le preghiere vengono esaudite. La pecora morta, invece, e le chiazze rosse, le ho usate di proposito: queste si trovano lì proprio per suggerire l’idea di una morte. Sai perché ho scelto proprio una cartolina come ultimo messaggio del fratello? Perché quando noi mandiamo cartoline è come se dicessimo:
«Ecco, io sono qui, in questo luogo», è un messaggio istantaneo, non c’è bisogno di altre spiegazioni. Ecco, fare film è come mandare cartoline. Mi hanno sempre accusato di essere troppo poetica e troppo romantica. Fare questo film mi ha resa più “tosta”, ma sono ancora capace di sognare.

Il cinema cinese recente viene spesso accusato, come abbiamo già detto, di esotismo e orientalismo: troppe lanterne rosse, troppe “cineserie” pre o postrivoluzionarie. Il tuo cinema è scarno, essenziale. Ricorda certi film di Wim Wenders. O è solo un problema di budget?

Con più soldi avrei fatto esattamente lo stesso film, ma con meno difficoltà. Wim Wenders? Non mi pare, ma è curioso che tu lo dica. Alla Scuola di cinema, gli insegnanti mi dicevano spesso che i miei saggi ricordavano Wim Wenders. Qualcun altro ha trovato il mio film vicino a Kiarostami, che è un regista che ammiro molto.

Ho notato nel tuo film un uso abbastanza frequente di immagini riquadrate da porte e finestre, come in molto cinema orientale, e soprattutto in Hou Hsiao-hsien.

Hou Hsiao-hsien è un regista che ammiro moltissimo. Di fatto, è stato dopo aver visto il suo film Lianlian fengchen (Dust in the Wind) che ho deciso di fare cinema. Quanto al gusto per il surcadrage, é del tutto involontario. Credo che rientri in una visione estetica più generale, tipica dei cinesi o dei giapponesi, come si può desumere anche dalla composizione delle immagini nella pittura cinese o giapponese.

Brother di Yan Yan MakIl titolo inglese del film Brother ti soddisfa ? Non sarebbe stato più appropriato ‘”Fratello maggiore”?

In effetti GeGe significa “Fratello maggiore” e non semplicemente fratello. Comunque, all’interno del film la parola fratello assume via via significati diversi. Cosi come il film ha diversi livelli di significato: c’è il viaggio alla ricerca del fratello, la metafora della creazione di un film, l’aspetto politico. C’è anche un significato nascosto, che non intendo spiegare. Se lo spettatore lo coglie, meglio così, altrimenti, pazienza.

Girerai altri film nella Cina continentale?

Ho trascorso qualche tempo in Tibet e in Nepal recentemente. Vorrei girare un film in uno di questi Paesi, ma non subito. Fra tré o quattro anni. Adesso non ce la farei, ci vuole del tempo per capire quelle culture. Comunque vorrei cominciare dal Nepal.

Conoscerai senz’altro il detto di Confucio: «Entro i confini dei quattro mari, tutti gli uomini sono fratelli». Sei d’accordo?

Sì. Si tratta di una fratellanza umanitaria, non etnica. I confini dei quattro mari stanno a indicare il mondo in generale, non solo la Cina.

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