Intervista a Marco Wong, presidente onorario di Associna

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Immigrazione, integrazione della comunità cinese. Le “scuole di frontiera” in Italia.

Di Antonio Liaci

Scuole di frontiera.

Questo è il termine coniato per quegli istituti che accolgono un numero preponderante di studenti stranieri rispetto a quelli di nazionalità italiana.

Usando questa fantasiosa denominazione, si possono designare istituti scolastici in ogni parte d’Italia, da Milano, a Prato, a Roma.

Nella Capitale, ad esempio, molto ha fatto discutere il caso della scuola Pisacane e della Di Donato, quest’ultima ubicata presso il quartiere Esquilino, vero cuore multietnico della città.

I genitori italiani protestano, le istituzioni non prendono alcun provvedimento e c’è chi si premunisce iscrivendo i propri figli in altre scuole.

La situazione creatasi viene messa in risalto, poi, da una proposta, per ora non ancora ufficializzata, del Ministro della Pubblica Istruzione Mariastella Gelmini, esposta in una conferenza stampa il 19 marzo a Palazzo Chigi.

Proposta che sarebbe tesa a fissare un tetto massimo del 30% di alunni immigrati per classe in ogni istituto italiano.

Questo provvedimento, secondo il Ministro, favorirebbe l’integrazione e potrebbe agevolare l’apprendimento della lingua italiana da parte degli studenti di tradizione culturale e linguistica diversa.

Ci si domanda quanto possa essere efficace questo sistema, quanto sia importante per le istituzioni la realizzazione di politiche che favoriscano l’integrazione, quanto sono importanti i migranti per lo sviluppo economico e culturale italiano e la percezione che il popolo italiano e le istituzioni hanno di essi.

Nasce dalla necessità di dar risposta a queste domande, l’esigenza di conoscere il punto di vista, a cui spesso i media non danno molto spazio, di coloro che sono il vero oggetto di queste discussioni.

A tal proposito si è richiesto il parere dell’Ing. Marco Wong, presidente onorario di Associna, l’associazione dei cinesi delle seconde generazioni.

Anch’egli cinese di origine, nato in Italia, si è visto spesso portavoce della comunità cinese italiana attraverso i mezzi di informazione.

Un punto di vista che rappresenta un tema di smentita riguardo al (pre)concetto generale di una comunità tra le più discusse.

associna

– Qual è, secondo lei, lo stato di salute dell’integrazione in Italia, specie poi per quanto riguarda la comunità cinese?

M.W.: Sicuramente ci potrebbero essere diversi punti di miglioramento. Per quanto riguarda la comunità cinese, ci sono diverse situazioni. Infatti, io normalmente non parlo mai di una comunità cinese, ma di tante comunità cinesi. Perché ci sono quelli come me che sono seconde generazioni. Sono in Italia da sempre, quindi è difficile parlare di integrazione, mentre ci sono persone di recente immigrazione, che chiaramente hanno delle problematiche del tutto diverse. Diciamo che, in generale, tutto risente di un quadro a livello nazionale in cui lo straniero non viene visto come una risorsa, un’opportunità, quanto un qualche cosa possibilmente da controllare, limitare…insomma una scomoda necessità.

– Ultimamente penso che abbia notato che l’attenzione dei media si sia spostata soprattutto su fatti di cronaca in cui sono implicati (in maniera presunta e non) immigrati. Lei crede che sia questo un metodo di controllo del governo su certe tematiche?

M.W.: Sicuramente c’è una certa tendenza nei media a dipingere il fenomeno dell’immigrazione solamente in certi aspetti, per cui, normalmente, quello che ha maggiore attenzione è la parte che riguarda la cronaca, che è un effetto secondario dell’immigrazione. Non si parla quasi mai, per esempio, di quelli che sono gli aspetti positivi, sebbene questo faccia parte delle caratteristiche dei media, della stampa. Si dice che fa più rumore l’albero che cade piuttosto che la foresta che cresce, no? In questo caso si parla veramente di una foresta, perché gli immigrati in Italia, oramai, sono quasi 4 milioni e creano una notevole parte della ricchezza italiana. Ma quello su cui ci si sofferma sempre leggendo il giornale, sono i fatti di cronaca nera, in cui sono coinvolti in qualche modo degli immigrati. E poi, soprattutto, si fa in un modo che tende a far vedere solamente una parte della realtà.

– Parliamo, appunto, di numeri. Lei ha appreso che il Ministro Gelmini ha proposto, di mettere una soglia di sbarramento, all’interno delle classi scolastiche, del 30% di alunni immigrati? Lei crede che esista veramente un problema di distribuzione degli alunni, come ad esempio può esserci nella Pisacane oppure nella scuola Di Donato all’Esquilino?

M.W.: In un mondo ideale la proposta della Gelmini potrebbe anche avere degli aspetti positivi, perché sarebbe meglio che la scuola sia quanto più possibile nella condizione di ricevere i contributi di tutte le comunità presenti e di dare a tutti quanti. Quindi, diciamo, una formazione della classe quanto più equilibrata possibile potrebbe essere un fatto positivo. Quello che rende, nei fatti, negativo questo genere di proposte è che, innanzitutto, la distribuzione degli studenti stranieri viene su base territoriale. Normalmente, non è che si sceglie un istituto piuttosto che un altro a seconda del numero o meno di stranieri o di italiani che ci sono. Un tetto, una percentuale predefinita di ragazzi stranieri è una cosa complicata e difficile da gestire, perché ci sono, come dicevo, tantissime situazioni. Ci sono i ragazzini che sono venuti in fasce in Italia e non hanno assolutamente problemi di lingua e non sono certamente equiparabili a dei ragazzi che sono arrivati, magari già formati e che pongono un diverso tipo di problemi. Poi, ci sono delle differenze territoriali, ci sono dei quartieri dove c’è un’altra densità di immigrati, e cosa si fa? Si costringe ad andare in un altro quartiere per una questione di quote? Quello che secondo me dovrebbe essere fatto è dare quella flessibilità alle scuole, in termini di facilità di mediatori culturali, di mezzi che possano essere gestiti con flessibilità dagli istituti. Per cui questa proposta direi che è solamente un atto di propaganda.

– A proposito di istituzioni, quanto è importante il dialogo tra i rappresentanti delle varie comunità e le istituzioni. E quanto ce n’è attualmente?

M.W.: Beh, direi che in atto ci sono dei tentativi che sono diversi a seconda delle città, del loro colore politico delle amministrazioni. Una formula efficace non esiste. Io sarei dell’idea che, fintanto che non c’è una reale forma di rappresentatività per i cittadini stranieri, tutte le altre cose sono dei palliativi senza una reale efficacia. Perché nel caso non ci sia una reale rappresentatività, gli stranieri verranno considerati come un capro espiatorio facilmente accusabile di tutti i mali di questo mondo, solamente perché non hanno la possibilità di difendersi attraverso un loro reale rappresentante. Le soluzioni del tipo consulta degli stranieri, consiglieri aggiunti e così via sono solamente dei palliativi che risolvono poco. Rischiano di diventare delle foglie di fico, poste li a coprire delle vergogne.

– Mi faccia capire, quindi lei crede che una rappresentanza diretta delle varie comunità, delle varie etnie all’interno del territorio italiano, possa essere la soluzione giusta?

M.W.: La soluzione a lungo termine, secondo me sarebbe che i cittadini stranieri possano votare almeno alle elezioni amministrative, perlomeno. Ricordiamoci che la democrazia americana, spesso nominata come un simbolo in occidente, si è basata sul principio, “No taxation without representation”. Insomma io contribuisco alla ricchezza di questo paese e voglio avere una rappresentatività. Se nell’America del ‘700 c’era la possibilità di far avanzare queste idee, non vedo perché nell’Italia odierna non ci sia lo spazio per questo principio.

– Passiamo ora ad un altro argomento: l’Esquilino. Secondo lei, l’Equilino può essere un modello di quartiere multietnico, in cui è l’integrazione ad essere al centro dell’attenzione e non la distinzione tra le culture? O lo è già?

M.W.: Per alcuni versi lo è già. Per evidenziare un modello che possa essere di riferimento ad altre realtà, però, direi che forse ci sarebbero da fare dei miglioramenti. Innanzitutto, spesso succede che, per il fatto che l’Esquilino viene assunto come modello, ci si mette sempre di mezzo, un po’ di ideologia. Per cui, magari, i paladini del multiculturalismo tendono ad utilizzarlo per dimostrare certe tesi. Mentre, nel quartiere ci sono anche delle presenze che hanno una visione molto più tetra della multiculturalità. Quindi, una delle caratteristiche che dovrebbe avere per diventare più ideale, è che venga interpretato e visto in modo pulito da certe strumentalizzazioni che possono venire da qualsiasi parte.

– Lei crede che la presenza della Facoltà di Studi Orientali, nel cuore dell’Esquilino, possa essere un mezzo per far incontrare due realtà così distanti, come possono essere quella cinese e quella italiana?

M.W.: E’ una possibilità. Ma al momento forse esiste poco, perché c’è pochissima interazione tra gli studenti e le comunità presenti. Questa è probabilmente una delle cose su cui si potrebbe lavorare per far si che veramente l’Esquilino possa diventare un modello. Speriamo che possa esserlo. In questo momento, non ci sono colpe ma è un dato di fatto che spesso gli studenti vivano l’università come un “esamificio”. Quindi hanno la priorità di studiare per gli esami, passare gli esami e così via e rimane pochissimo tempo per tutto il resto…ed è un’opportunità persa.

– Personalmente ho notato, da parte degli esercenti cinesi, dove spesso gli studenti della Facoltà si recano ad acquistare della merce, una chiusura nei confronti degli studenti stessi, una riluttanza nell’interazione. Questo diventa più evidente, ad esempio, quando si cerca di parlare ai gestori nella loro lingua. Spesso chi si trova dall’altra parte del bancone risponde in italiano. Questo modo di interagire, oserei dire “asettico”, non credo che sia una questione culturale. Vorrei sapere, quanto è disposta la comunità cinese ad integrarsi con quella italiana?

M.W.: Questa è una domanda alla quale bisognerebbe fare un parallelo in termini italiani, non crede? Non c’è mai tantissima relazione tra gli studenti ed il mondo del lavoro. Quindi se uno va in qualsiasi esercizio commerciale ed interagisce con i commessi, solamente per fare quattro chiacchiere risulta in effetti un po’ strano. Quindi, diciamo, è una questione di situazioni. Però credo che dipenda dalle persone e dal tipo di attività che fanno. Poi, come dicevo prima, proprio per il fatto che, soprattutto ultimamente, c’è molta attenzione mediatica, c’è in effetti un po’ di reazione, per cui gli operatori commerciali cinesi tendono ad avere un po’ di diffidenza.

– Parliamo di Associna. Lei è il presidente onorario dell’associazione di cinesi delle seconde generazioni. Il sito corrispondente è un portale dove si incontrano per la gran parte cinesi, ma anche molti italiani. Vorrei sapere qual è la risposta, del pubblico italiano a questo portale e alle iniziative che questo portale propone?

M.W.: Il sito web è nato, all’inizio come un punto di aggregazione per i cinesi di seconde generazioni. Per il fatto che le altre associazioni cinesi, per motivi linguistici, spessissimo non hanno il sito web, ha cominciato a coprire un vuoto che c’era e c’è ancora. Per cui, ha iniziato quasi come a fare da portavoce a un po’ tutta la comunità cinese. E poi c’è stata un’evoluzione dal sito web, un luogo d’incontro solo virtuale, all’organizzazione di tante iniziative reali. Per cui, per esempio, abbiamo organizzato eventi l’anno scorso a cui sono accorse migliaia di persone. E quindi non vuole più essere solo un punto d’incontro virtuale, solamente per quanto riguarda i problemi di identità ma a più ampio spettro. Adesso ci sono tantissime iniziative che vanno nella direzione della lotta alla disinformazione, quanto alla missione originale che era quella di creare un luogo di incontro per le seconde generazioni dove poter discutere dell’identità e di tanti temi comuni, e quanto poi a tante altre iniziative che sono legate anche alle prime generazioni di cinesi.

– Parlando di informazione. Si può dire che la Cina, attraverso le informazioni che ci pervengono, abbia perso il suo antico esotismo per dare spazio ad una visione della Cina, magari, più realistica? O noi italiani abbiamo ancora l’idea della Cina lontana, distante?

M.W.: L’idea di Cina che c’è stata nel corso degli anni, è sempre stata molto parziale. Soprattutto non tiene conto del cambiamento rapidissimo che c’è in Cina. Perché la Cina sta cambiando molto velocemente e la percezione che c’è nell’opinione pubblica cambia, ma non altrettanto rapidamente e non altrettanto correttamente. Per esempio, negli anni ’70, quando c’era ancora la rivoluzione culturale, diciamo, il contributo della Cina all’Occidente, in termini di idee, è stato molto rilevante, importante, per esempio nel ’68. Quello che arrivava in occidente, però, era una distorsione di quello che in realtà stava succedendo in Cina. Se vogliamo, in quegli anni, forse c’era un pregiudizio quasi positivo. Adesso siamo in presenza di una distorsione altrettanto grande però in termini negativi. Per cui spesso si tende a far vedere gli aspetti più negativi della Cina senza contestualizzarli. Nel momento in cui si parla dei diritti umani e dell’inquinamento e così via, ci si scorda di menzionare che la politica cinese, negli ultimi trent’anni, ha tirato fuori dalla povertà centinaia di milioni di persone. Credo che, giustamente, quando in Cina si dice che il primo diritto umano è quello all’esistenza, si può affermare che le politiche che ci sono state in Cina hanno contribuito veramente a dare il primario diritto umano a centinaia di milioni di persone. È chiaro che nessun paese è il paradiso in terra, però si dovrebbe contestualizzare in questi termini l’informazione che si fa sulla Cina. E poi si tende a dimenticare appunto che la Cina cambia velocissimamente e forse anche per questi motivi è oggettivamente difficile dare una rappresentazione corretta.

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