Balletto di cifre sui morti in Tibet. Intanto la protesta dilaga. Ma cosa sta accadendo realmente?

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La risposta a questa domanda per ora sembra essere : “nessuno lo sa”. Nell’era in cui tutti i cellulari dispongono di una telecamera o di una macchina fotografica nessuno è riuscito a fotografare la strage dei monaci tibetani. Ma a questo dubbio è facile rispondere attribuendo questa mancanza alla censura cinese. Il fatto è che internet dal Tibet continua a funzionare senza troppi problemi (per ora). Alcuni bloggers, ripresi da giornali un po’ di tutto il mondo hanno detto che le fotografie satellitari del massacro erano esplicite e parlavano chiaro. Ma nessuno ancora le ha viste. Le uniche immagini che abbiamo visto sono state quelle rilasciate dalle tv cinesi che mostrano manifestanti inferociti intenti a distruggere e a saccheggiare negozi, banche e attività commerciali gestite da cinesi, e alcuni video delle manifestazioni dove sostanzialmente non accade nulla. Si sono visti però i blindati dell’esercito cinese. Si è visto come il governo di Pechino sia ancora abituato ad inviare i carri armati ogni qualvolta vi sia un problema sociale. Proprio come a Tiananmen. Ma a differenza degli episodi del giugno del 1989, ancora non sono circolate immagini di monaci che cercano di fermare i carri.

Fonti vicino al Dalai Lama parlano di almeno 100 morti, uccisi dalle forze militari cinesi. Ma l’unico inviato di una testata occidentale a Lhasa, un giornalista dell’Economist, preferisce non sbilanciarsi e dimostra una certa cautela a confermare queste notizie, anche perché effettivamente non ha visto nulla e queste news gli sono rimbalzate dal governo tibetano in esilio. Intanto però le truppe cinesi hanno circondato Lhasa, e pattugliano le vie del centro armate. La gente si nasconde in casa ed evita accuratamente di sporgersi alle finestre per il terrore di essere centrati da un cecchino.

Il 15, il giorno successivo al primo crackdown cinese, i manifestanti hanno continuato ad incendiare e ad attaccare gli esercizi commerciali dei cinesi. Colonne di fumo nero si alzavano dal quartiere musulmano della capitale dove vive l’etnia Hui e dove si trova il principale mercato della carne. Ma con l’approssimarsi delle unità paramilitari cinesi anti-sommossa, i rivoltosi hanno cominciato a ritirarsi. In principio i manifestanti hanno attaccato i soldati disarmati lanciando pietre. I soldati si sono ritirati lanciando lacrimogeni, e sono tornati in un secondo tempo armati di fucili, sparando ogni tanto colpi in aria, per lanciare un messaggio (non di pace e amore evidentemente).

Successivamente hanno cominciato a posizionarsi sui tetti delle case.

Durante la notte sembrerebbe che gli Hui abbiano cominciato a preparare una vendetta contro i tibetani, dopo l’incendio avvenuto attorno alla moschea. Ma l’esercito ha circondato il quartiere Hui impedendo loro di reagire.

Domenica le truppe cinesi hanno affermato che avevano ripreso il controllo della città. Saltuariamente si sono sentiti degli spari echeggiare per i vicoli della città, ma non è chiaro con quale scopo, se per minacciare o se per centrare qualche bersaglio. Sempre domenica due rappresentanti del governo tibetano (non quello in esilio, ma quello designato dai cinesi), sono andati nell’hotel del corrispondente dell’Economist ed hanno offerto ai pochi occidentali rimasti biglietti aerei per lasciare Lhasa, ma senza ordinare loro di lasciare la città. Il giornalista dell’Economist rimane pertanto l’unico reporter occidentale a Lhasa, e la nostra unica fonte attendibile a questo punto.

Intanto la protesta in Cina si è espansa ad altre regioni limitrofe dove risiedono comunità tibetane come ad esempio a Labrang nel Gansu. Per i tibetani le Olimpiadi rappresentano un’opportunità irrinunciabile per attirare attenzione verso la loro causa.

Intanto stanotte scadrà l’ultimatum intimato dalle autorità cinese. La paura è che seguano arresti indiscriminati casa per casa.

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