Recensione di Chung Kuo di Michelangelo Antonioni

La “Terra di mezzo” viene nell’arco di otto settimane esplorata e scrutata da occhi curiosi che non vogliono azzardare nessun presuntuoso giudizio, proprio perché il poco tempo e la vastità della Cina non possono permettere di fare sentenze a chi per la prima volta si accosta a questa realtà in costante cambiamento e ricca di contraddizioni.

Chung Kuo di Michelangelo Antonioni (1972)

Produzione: RAI RADIOTELEVISIONE ITALIANA
Direttore fotografia: Luciano Tovoli
Montaggio: Franco Arcalli
Aiuto regia: Enrica Fico
Autore testi e commenti: Andrea Barbato
Fonico: Giorgio Pallotta
Consulente musicale: Luciano Berio

Chi ha avuto occasione di vedere in tarda serata i tre episodi di “Chung Kuo”, un rappresentativo documentario di Michelangelo Antonioni, dei primi anni settanta girato per conto della Rai in pieno periodo della Rivoluzione Culturale maoista, avrà apprezzato il ritratto della Cina dipinto dal regista nostrano. Antonioni accompagnato da una troupe filma i particolari che più lo colpiscono ed incuriosiscono, ma ovviamente il percorso è stato rigorosamente stabilito e prefissato dalle guide cinesi e dalle autorità. La prima città visitata è Pechino.

Nel cuore della capitale dove sorge Tian An Men, la piazza più grande del mondo, ma anche la più grigia e la più severa, si ergono imponenti edifici politici e giganteschi ritratti dei padri del marxismo. Un tempo la vasta piazza non esisteva, è stata edificata quando il popolo ha sentito la necessità di riunirsi e di dimostrare. I ritratti della gente che la percorre sono quelli di persone comuni: bambini che cantano, gente in bici o con altri mezzi di trasporto semplici, oppure tipici della campagna.

Sono tutti personaggi senza tracce di lusso, ma ricchi di una profonda dignità. Un’altra realtà della città è quella della sanità e degli ospedali. Una giovane donna pronta a dare alla luce il primo figlio, accetta di conversare con la troupe italiana che la riprende nel momento più gioioso della sua vita. La donna si sottopone ad un parto cesario e la particolarità del suo intervento è quella di essere anestetizzata per mezzo dell’agopuntura (enormi aghi di circa trenta centimetri le vengono inseriti nel ventre, mentre lei rimane coscente per tutta la durata del cesario) per lenire i possibili dolori causati dal taglio. Le riprese sono molto schiette ed evidenziano lo stupore di un occhio occidentale nei confronti di una medicina così diversa ma efficace.

Pechino è una grande città, ovviamente l’aspetto dell’economia rurale ed anche la vita lavorativa degli operai delle fabbriche sono realtà che non si possono ignorare. L’occhio si sofferma così ad osservare anche le comuni agricole. Altre tappe della capitale sono poi la “Città Proibita”, il “Tempio del Cielo” e la “Grande Muraglia”, tutti segni del grandissimo passato di questa vasta ed immensa nazione. Quest’ultima però è guardata con un malinconico stupore, forse perché il regista ha sentito (influenzato dalle letture che raccontano la costruzione della Muraglia) le urla strazianti di dolore dei corpi ancora vivi degli operai che si ribellavano alla schiavitù, i quali hanno funto da mattoni per la famosa costruzione.

Un’altra tappa è il Sud, e precisamente la povera provincia dello Hunan. Questa regione, capitale del mais e del frumento, un tempo aveva una scarsa risorsa idrica, ma grazie alla fatica e volontà di 30.000 uomini che si sono fatti strada nel granito per 15.000 km, il canale “Bandiera rossa” con le sue acque ha soddisfatto la necessità del versante della montagna che era sprovvisto d’acqua. Anche in questa regione la troupe visita una comune agricola, che è divisa in numerose sotto sessioni. Ogni Brigata di produzione è capeggiata dal Comitato rivoluzionario, il quale decide della vita dei villaggi.

Tutti i lavoratori hanno diritto ad un salario annuale e ad una quota di cereali per il sostentamento proprio e della famiglia. Ma ahimè, il tutto non riesce a colmare le necessità, infatti alcuni contadini vendono o barattano i propri effetti personali, raccolto o animali, in un libero mercato della zona. Le cineprese del grande maestro si avventurano anche in un piccolo paese di montagna dove, con estrema sorpresa dei cineoperatori, esistono persone che non hanno mai visto un occidentale: i cinesi sono assai stupiti nel vedere questi strani, nuovi volti che creano in loro meraviglia, curiosità e forse anche timore.

I “laowai” hanno per loro, molte caratteristiche somatiche buffe, così come lo sono anche gli indumenti che portano, ma il loro senso del rispetto nei confronti dello straniero li induce ad avere una strana reazione: pieni di pudore, alcuni immobili, guardano attoniti. Ultima tappa è Shanghai, città dalle molte facce che ha subito notevoli trasformazioni. Ciò che colpisce di primo impatto è l’impressionante numero dei suoi abitanti, i grandi palazzi, l’immensa periferia industriale ed il suo grande porto sul Fiume Giallo. Nella grande metropoli vi è la testimonianza di un florido passato, ma anche di un’estrema povertà, quale le case di paglia e fango, dove la gente abitava fino ad un quarto di secolo prima. Ma proprio lì, in una casetta di mattoni dell’umile villaggio di pescatori sulle sponde del Fiume Giallo ha cominciato il riscatto del popolo cinese da vecchie e nuove schiavitù: il 1 luglio 1921, una spia entrò in una stanza ormai vuota dove si era appena interrotto il I Congresso del Partito Comunista Cinese.

La cinepresa di Antonioni filma poi la linea di colore, che come la demarcazione di un delicato pennello di artista segna il confine delle acque del Hwang Ho e dello Yangtze Kiang, quando confluiscono per poi proseguire insieme verso il mare. Il regista ci rende partecipi delle tradizioni delle sale da tè, dove molti cinesi usano intrattenersi allegramente, ed anche delle tecniche di rilassamento del corpo e dello spirito, quale il Tai-Chi e la ginnastica delle strade, degli acrobati e del teatro, che sono ancora molto fortemente vissute nella Cina attuale e contemporanea. Questo dipinto della nazione cinese del ’72, che per alcuni aspetti è molto cambiata, ma per la spontaneità dei canti, delle risate, dei giochi e degli scherzi di bambini che Antonioni ha ripreso, risulta ancora attuale e contemporaneo. La semplicità e sincerità di alcune anime di allora vive ancora in molti asiatici. E’ un vero peccato che quest’opera non sia stata apprezzata dalle autorità governative cinesi, perché non è assolutamente un documentario critico o offensivo, anzi è genuino e veritiero.

Dominique Musorrafiti, 2003

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